di Alberto Negri
Anche un treno oggi nei Balcani può restituire speranza per il futuro. Il 5 ottobre di dieci anni fa le elezioni e una sollevazione popolare deposero Slobodan Milosevic, travolto da Otpor, il movimento finanziato da George Soros, e dai bulldozer dei minatori: la Grande Serbia da lui sognata era ridotta dopo un decennio di guerre e 200mila morti a un moncherino sulla carta geografica. Belgrado, alla fine della guerra del Kosovo del '99, era politicamente e pure fisicamente isolata dal resto dei Balcani e dell'Europa. Il "corridoio paneuropeo numero dieci", dove un tempo si snodavano l'autostrada e la ferrovia, era rimasto chiusi così a lungo che per far viaggiare uomini e merci le compagnie di trasporto si lanciarono in vie alternative, da quelle di terra, più lunghe e tortuose, alle rotte marittime nell'Adriatico.
Poi, lentamente, lo strategico corridoio dieci, la dorsale più breve che dall'Ottocento collega l'Europa alla Turchia, Occidente e Oriente, è stato riaperto. E ieri in Italia è arrivato anche il primo treno merci serbo-croato sloveno: i 32 vagoni, con un carico di 700 tonnellate di legno semilavorato, sono partiti lunedì da Paracin, nella Serbia centrale, poi via Belgrado, Zagabria e Lubiana, hanno raggiunto la dogana di Fernetti-Sesana, la più balcanica delle nostre frontiere.
Venti ore di percorso, la metà del tempo impiegato finora sulla strada ferrata alternativa, una sorta di Balkan Express rispetto a quello del "corridoio numero quattro" che passa dall'Ungheria, dopo avere toccato Bucarest, Sofia e Salonicco. La linea Lubiana-Zagabria-Belgrado-Skopje-Salonicco, con le sue diramazioni verso Vienna e Trieste, consente di arrivare a Istanbul in 36 ore contro le attuali 57, ripristina l'antica via dell'Orient Express e della Berlino-Baghdad ma soprattutto apre nuove prospettive di cooperazione economica e forse anche politica tra gli ex nemici della guerra civile jugoslava. Il treno merci è infatti una joint venture fra le tre capitali denominata Alliance Cargo 10 e ha sede in Slovenia, stato membro dell'Unione e quindi in grado di garantire alla società l'adeguamento alle norme comunitarie.
Nell'entusiasmo del momento la stampa serba ha ribattezzato la compagnia “le Nuove ferrovie jugoslave” e il ministro belgradese delle Infrastrutture non ha mancato di sottolineare che questa cooperazione tra le ex repubbliche della creatura voluta dal maresciallo Tito porterà nelle casse 50 milioni di euro all'anno: ancora di più se sul corridoio dieci comincerà a viaggiare anche soltanto una parte degli 8mila convogli merci che ora passano sul quattro.
La Serbia ha disperatamente bisogno di qualche successo per alleggerire la storica zavorra ereditata da Milosevic. Rispetto all'89, quando nel giorno di San Vito il vojvoda serbo pronunciò il famigerato discorso di Kosovo Polje che aprì la stagione dell'odio etnico, l'economia di Belgrado ha perso il 30-40% del suo potenziale, la disoccupazione è al 20% e dal 2008 il dinaro ha lasciato nella crisi dei mercati finanziari un terzo del suo valore. L'economia è ancora avviluppata in uno statalismo corrotto e burocratico che si sintetizza in una battuta amara: «La Serbia è il paese dove si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite», per affermare che i bilanci in rosso vengono accollati sulle spalle dei serbi e gli utili finiscono nelle tasche di uomini d'affari spregiudicati.
Eppure la Serbia resta uno degli investimenti più attraenti nei Balcani, come dimostrano quelli della Fiat nella ex Zastava, della Us Steel, di Unicredit, della greca Ote e di numerose società tedesche e austriache. In un decennio che pure non è stato brillante, Belgrado, secondo il presidente Boris Tadic, ha calamitato investimenti stranieri per 15 miliardi di euro.
Ma il vero problema è il fardello lasciato da Slobo: dalla questione del Kosovo, che ha impigliato Belgrado in estenuanti rivendicazioni nazionaliste, alla consegna al tribunale dell'Aja di Ratko Mladic, il generale del massacro di Srebrenica ancora latitante. Mentre la Slovenia è già nell'Unione e la Croazia dovrebbe arrivarci in un paio d'anni, la Serbia è ancora lontana da Bruxelles, più della Bosnia, della Macedonia, del Montenegro e persino dell'Albania.
L'attuale governo italiano vuole guidare una sorta di “rimonta” dei serbi verso il traguardo europeo: il 13 si terrà a Belgrado, organizzato dall'Ipalmo, un convegno sulla partnership con l'Italia e il giorno dopo arriverà una delegazione capeggiata dal premier Silvio Berlusconi e dal ministro degli Esteri Franco Frattini. Per ora la Serbia, così vicina e così lontana, un lembo a volte troppo trascurato del “nostro Oriente”, ha almeno un treno in più per entrare in Europa, lungo lo storico corridoio numero dieci.