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Benvenuti: Tiberio Mitri il mio mito (Il Piccolo 24 nov)

Pubblichiamo un brano dell’introduzione di Nino Benvenuti al libro ”Tiberio Mitri. Il pugile, la favola, il dramma” (Edizioni Anordest).

di NINO BENVENUTI

Chi è stato per me Tiberio Mitri? È stato il mito. Il campione del cuore. Quello che io ragazzino sognavo un giorno di diventare. Con il tempo, che scorrendo riduce le distanze tra le persone, siamo anche diventati amici, pur senza scendere mai veramente in confidenza.

Il mio primo ricordo di Mitri risale all’inizio degli anni Cinquanta. Ero un ragazzo, 13-14 anni. Arrivavo in bicicletta da Isola d’Istria per andare ad allenarmi nella palestra dell’Associazione Pugilistica Triestina in via San Nicolò. In quegli anni Trieste era piena di palestre per fare pugilato. All’Apt, come la chiamavamo tutti, c’erano diversi pugili dilettanti. E poi c’era lui, Mitri. Era già affermato. Per me ragazzino frequentare quegli ambienti era come andare all’Università della boxe. Imparai presto, ad esempio, a leggere il rumore dei colpi al sacco. Si poteva capire il valore di un pugile sentendo il suono dei suoi pugni. C’erano quelli secchi e potenti, quelli veloci. Come se ogni atleta seguisse un personalissimo spartito. Mitri trasformava quell’esercizio in un concerto di pianoforte. Potevi chiudere gli occhi e riuscivi comunque a riconoscere i colpi di Tiberio.

Aveva un pugno secco, veloce, ma non tanto da venir considerato un picchiatore. Di lui colpivano l’eleganza e l’efficacia. Ma nel corso della sua carriera è riuscito anche a chiudere incontri con rapidi ko, come quando riconquistò il titolo europeo ai danni di Turpin. Io, invece, avevo caratteristiche diverse, una ”castagna” più potente e infatti rispetto a lui vanto più vittorie per ko.

Mitri mi prese subito in simpatia. Non mi ha mai detto il motivo. Riteneva che avessi quella tecnica pugilistica che poteva farmi considerare una promessa. Inoltre, probabilmente, rivedeva in me un po’ del Tiberio ragazzo, che a 13 anni andava a tirare pugni in palestra. Io ero felice di vederlo, di potergli parlare. Scherzava in dialetto, soprattutto alla vigilia di qualche incontro. Ghe tiro due stecche che lo meto longo distirà. Gli dò un paio di scoppole che lo stendo. Caratterialmente eravamo diversi. Lui era un personaggio, io più introverso.

Aveva uno stile tutto suo. Quando partiva il colpo alzava il gomito e la spalla sinistra accompagnava quasi meccanicamente il gesto, alzandosi a proteggere il mento. Ammiravo quella tecnica partendo dalla guardia. Un diretto sinistro, poi doppiato con il destro. Combinazioni rapide, ficcanti. Sequenze che ho cercato di fare mie e di ripeterle durante i combattimenti.

All’Accademia Pugilistica Triestina ci allenavamo in tanti e non mancava chi doveva arrangiarsi per vivere e si batteva per combattere la fame. Io, figlio di un commerciante di pesce, potevo considerarmi tra i più fortunati. Era il periodo postbellico, bisognava inventarsi un futuro. Il pugile era lo sportivo più amato e ricco. I calciatori, allora, venivano in secondo piano rispetto ai campioni del ring. Sfondare nella boxe era il sogno di tutti.

Con Mitri abbiamo iniziato a trovarci anche fuori dalla palestra. Finiti gli esercizi al sacco, si andava a bere un bicchiere di vino all’osteria. Era un’abitudine. Anche se ero un ragazzo, un bicchiere me lo allungavano ugualmente. Bevi, coss te vol che te fazi un bicer…Sapevamo che nessuno di noi avrebbe ecceduto. Un bicchiere e basta. Quanto bastava per dare ancora più calore a quelle quattro ciacole all’osteria.

Parlavamo allora e abbiamo continuato a farlo anche dopo. Si discuteva di boxe ma anche della vita. Sapevamo che la vita riserva sempre qualche sorpresa ma purtroppo non sapevamo quale. Forse avremmo dovuto parlare con qualcuno più grande di noi, con maggior esperienza. Ci inventavamo un dopoboxe ma non rendevamo conto che il pugilato è uno sport a termine. Un calciatore decide da solo quando non giocare più: quando ha guadagnato abbastanza, ha l’età giusta, ha cominciato a investire i soldi. Il pugile invece non ha il diritto di decidere. È la vita che decide per lui. È lei che ti dice: guarda, tu finisci quando lo dico io. Può essere un ko subito inatteso, un infortunio, un match saltato. Nulla che possa essere previsto.

Eravamo impreparati a tutto questo. Tiberio Mitri era più di un pugile. Era un divo. Acclamato, cercato da tutti. Ma questo lo portava a perdere di vista la realtà. Io ho sempre pensato che la boxe sia la disciplina sportiva più bella. È perfetta, tutto tondo, nessun angolo. Ti può arricchire in tutti i sensi più di qualsiasi altro sport ma non ti avverte quando il gioco finisce. Mitri non se n’era accorto. Si sentiva divo anche dopo essere sceso definitivamente dal ring.

Gli aiuti si sono rivelati insufficienti. Inevitabile. È difficile convincere un campione quando è all’apice del successo. Si sente invulnerabile. È difficile dirgli che oggi deve pensare al domani. Lui invece incassa e gode. Tiberio credeva molto in sè stesso, dava l’impressione di ascoltare l’opinione di tutti e in realtà agiva di testa sua. Lui che da bambino aveva vissuto all’Istituto dei Poveri non voleva saperne di rinunciare a qualcosa. Aveva fatto troppa fatica per arrivare in vetta e, una volta arrivato, voleva mantenere quel momento all’infinito. Ecco, proprio in quel momento qualcuno avrebbe dovuto convincerlo a guardare un po’ più in là.

La prima moglie, Fulvia Franco, probabilmente non gli è servita. Vicino a un campione c’era una donna che voleva essere a sua volta campionessa. Voleva diventare una diva e viveva da diva pur senza averne le qualità. Due divi non possono stare insieme. E quella coppia non ha dissipato nulla solo perché non c’era niente da dissipare.

Gli ultimi ricordi sono legati a Mitri vecchio e malato. Il morbo di Parkinson, l’Alzheimer. Ha scontato anche la sua grande generosità sul ring. Quello stile elegante aveva un solo limite: faticava a tenere a distanza gli avversari perchè loro sapevano che non aveva la ”castagna” e quindi lo attaccano facendosi sotto. E Tiberio combatteva sempre con intensità. Erano tempi in cui due match al mese non erano un fatto insolito. Mitri non si tirava mai indietro. Ripenso al suo combattimento al Madison Square Garden contro Jake La Motta. Il suo incontro peggiore. Una prova di enorme coraggio ma anche un supplizio. Il ”Toro” lo colpiva da tutte le parti ma Tiberio non indietreggiava. Non voleva cedere. Forse sarebbe stato meglio arrendersi ma lui voleva fermamente arrivare fino in fondo. Rimanere in piedi. Ci è riuscito. Ma a che prezzo.

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