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Bettiza: Missoni, il grande stile di vita di uno stilista per caso (La Stampa 10mag13)

Non immaginavo di dover inviare, proprio di giovedì, quest’ultimo tristissimo saluto a Tai, come usavamo chiamare Ottavio Missoni. Al conviviale e, nonostante gli anni, ancora vigoroso Tai, che non rivedrò più al solito tavolo d’angolo del ristorante «Boeucc» di Milano.

Quando non era in giro per il mondo, oppure in barca a vela nella nativa Dalmazia, Tai, era solito riunire il giovedì sera nel vecchio ritrovo milanese sotto la sua divertita ala patriarcale un ristretto gruppo di amici.

Scendeva a Milano dalla villa-fattoria di Sumirago in una macchina grande e modesta insieme, che continuò a guidare di persona anche in notti burrascose fin quasi al limite delle forze vitali; mollò il volante solo alla soglia dei novanta, cedendolo a un cognato più giovane, col dispiacere ironico e un po’ amaro dell’olimpionico assuefatto a tendere i muscoli e lo spirito contro l’usura del tempo.

Ma non usava compiangersi; usava anzi rimproverarsi: «Noi dalmati siamo tutti un po’ matti. Ci ostiniamo a confutare la realtà della morte, cantando e bevendo come se i malanni e i guasti degli anni non ci riguardassero».

A prescindere dal cantare alto e dal bere forte, che lo accompagnarono e sostennero di successo in successo in una vita piena, ardita, una vita artistica, più da pittore che da tessitore, egli si compiaceva dello sfondo biografico e dinastico da cui proveniva. Le sue barche erano barche vere, illiriche, uscocche, non ferri da stiro miliardari, ma strumenti basati sulla vela e la manualità del timone: atti a misurarsi con la forza della natura, con i brutti scherzi del mare, degni insomma del figlio d’un capitano dalmata di lungo corso che s’era fatto le ossa nella marina austroungarica.

La moda, le sfilate, i guadagni che gli procuravano? Non ne parlava mai, assolutamente mai, come se la cosa concernesse i talenti e le inclinazioni naturali delle donne di famiglia. Lui, che era un falso naif, preferiva passare le sue ore a leggere libri, anche astrusi, piuttosto che sperperarle in clangori mondani.

Figlio autentico della propria terra, nel fisico atletico, nei lineamenti bellissimi e marcati, nel bilinguismo in cui il veneto coloniale si univa a nostalgiche e temerarie battute in croato: amava sottolineare il cognome della madre, una Vidovich, nobildonna di Sebenico, che lo esortava a non dimenticare la lingua slava che egli infatti parlava correntemente. Usava non a caso definirsi così: «Sono un mediterraneo multiforme, nel quale si rimescolano le acque dell’Adriatico e del Danubio».

Ancora bello, sempre generoso, sempre sorridente, sempre pronto alla battuta scettica e inattesa, il colpo di grazia che doveva portare lui, novantenne intrepido, a una fine per così dire precoce fu la scomparsa misteriosa del primogenito Vittorio nei marosi del Venezuela.

L’enigmatico e tragico abisso che aveva inghiottito Vittorio doveva inghiottire, ripeto precocemente, anche il «grande Tai», come lo chiamavamo, la cui sana allegria era diventata alla fine quella che Ungaretti chiamava «l’allegria del naufrago». Si direbbe quasi che il mare non perdoni nulla proprio a chi l’ha vissuto e amato troppo. Hvala za sve, dragi Taj.

Enzo Bettiza
“La Stampa” 10 maggio 2013

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