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Bianche e aride ossa del mondo sul Carso (Il Piccolo 18 apr)

L’INCIPIT DELLO SCRITTO DEL MINISTRO DELLA CULTURA SPAGNOLO
Bianche e aride ossa del mondo sul Carso

di CESAR ANTONIO MOLINA, Ministro della Cultura spagnolo

A Joyce piaceva la bora, quel freddo vento triestino. In ”Finnegans Wake” gioca col suo nome e col suo suono. Al contrario, gli dava fastidio il vento caldo e desertico di scirocco. Durante il mio soggiorno in questa città non ho conosciuto né l’uno né l’altro. Avevo più probabilità di incontrare la bora, poiché era la sua stagione, l’inverno; mentre lo scirocco compare di solito a primavera. Claudio Magris viene a prenderci in macchina all’Hotel Jolly, in corso Cavour 7, e porta me e Mercedes verso il Carso, alla periferia della città. È una grande montagna formata da roccia calcarea, la cui principale caratteristica è la permeabilità. Il Carso triestino si estende da Monfalcone fino alla Val Rosandra, alle sue spalle c’è il mare di Muggia. Ci allontaniamo dalla strada principale, dove un segnale indica la direzione per Vienna, e incominciamo a percorrere strade secondarie. Ci fermiamo in alcune osterie lungo la strada per assaggiare i vini e le specialità del posto, e verifico man mano come l’italiano inizi a mescolarsi e a condividere lo spazio con lo sloveno. Grotte e pozzi sboccano lungo il cammino, così come i pini, le querce, gli allori e i castagni. Insegne ci premuniscono contro cervi, volpi, cinghiali e tassi. In aria alcuni stormi di uccelli da rapina.

La macchina incomincia quindi una penosa e curvilinea ascesa, fino ad arrivare a una grande piazza presieduta dall’alta torre di una chiesa. Siamo già a un’altitudine molto elevata sul livello del mare e da qui si scorge, da una parte, la costa e, dall’altra, una grande spianata di roccia viva, bianca, come se fosse frantumata in migliaia di schegge simili a splendenti frammenti di marmo. Mi soffermo a contemplare di più questo paesaggio duro e crudele rispetto all’altro addolcito dalla linea marina dell’orizzonte. Claudio mi segnala questi burroni in fila e mi indica la Slovenia da quelle parti. Queste pietre sembrano essere cadute da alcune bisacce del Creatore. Assomigliano anche alle lacrime di sale piante da qualche amore perduto di antiche divinità mitologiche. Forse il Carso è il luogo dove vanno a finire le ossa già sbucciate dell’umanità, e qui si mescolano alle rovine di tutti i tempi ed età che il mondo accumula man mano. Più che una cava è un deposito.

Uno dei poemi che più mi piacciono di Yeats è quello che dedicò a sua moglie George. Il poeta irlandese acquistò una torre in rovina, la ricostruì e la regalò alla sua sposa assieme a questi versi, che incise in una placca: «Io, il poeta William Yeats/ con le vecchie pale di un mulino,/ lavagna verdemare e ferri forgiati a Gort,/ ho restaurato questa torre per mia moglie George;/ possano queste parole rimanere/ quando tutto sarà di nuovo in rovina» («When all is ruin once again»). Forse qui, in questa parte del Carso che contemplo, sono ammucchiate le rovine delle rovine di tutto il passato. Carso vuol dire ”roccia” in lingua celtica, vita di roccia. Sono vive queste bianche e aride ossa del mondo? Ma il Carso non ha bisogno di Yeats per decantare la sua desolata bellezza lacerata, egli ha il suo poeta, Scipio Slataper. Uno scrittore poco conosciuto all’infuori di questa geografia. Slataper morì sul fronte durante la Prima guerra mondiale. Era il mese di dicembre del 1915. Non aveva ancora compiuto trent’anni.

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