Un punto è ineludibile: bisogna scrivere e far sapere cosa era il fascismo a partire dagli anni Venti. Non bastano i libri che egli stesso ha scritto, i romanzi che quegli anni descrivono e che forse ritiene troppo sfumati, o i saggi in circolazione probabilmente non esaustivi, Boris Pahor vuole di più: occorre togliere il velo a un pezzo di storia italiana, farlo conoscere ai giovani. Per il novantanovenne scrittore italiano di lingua slovena, questo è più di un leit-motiv, è una ragione di vita. Un verbo che enuncia in giro, a dispetto dell’età, nella fitta agenda di presentazioni per il Nord-Est del suo ultimo libro, Figlio di nessuno. Un’autobiografia senza frontiere (Rizzoli), scritto con Cristina Battocletti. Battagliero ma con sarcasmo, lucido fino a risalire a dettagli dell’infanzia e – nella storia non personale – ad eventi relegati in nota a un libro su Venezia nel 1866, Pahor artiglia il microfono e dosando parole, ricordi e riferimenti, mitraglia aneddoti e vicende togliendosi più di un sassolino e da entrambe le scarpe. Ma non lo fa con la “tigna” degli anziani, né con l’asprezza del rimpianto, piuttosto con l’insolita pacatezza e l’ironia di chi ha imboccato una strada che sapeva impegnativa e ne affronta le difficoltà. Parla con distacco e senza falsi eroismi di scudisciate naziste e delle pesanti ispezioni subite, con la moglie, dagli jugoslavi che cercavano la Zaliv, la sua rivista non organica sul quale compariva il non desiderato Edvard Kocbek, reo di aver fatto conoscere il massacro di almeno 12 mila prigionieri di guerra.
Anzi, si schernisce davanti a chi lo definisce eroe: «Non era mica coraggioso pubblicare quella rivista a Trieste, fosse stato a Lubiana, ma a Trieste. Poi fui arrestato, con mia moglie, in Jugoslavia, ma non sono stato un rivoluzionario», «ho fatto due riviste ma mai combattimenti», «ho fatto quello che era logico». Vero, se prima non ci fossero stati gli anni del fascismo duro (per lui sloveno), i lager, un anno e mezzo di sanatorio in Francia e il dopoguerra per come è stato in quella zona di confine. Piuttosto un irriducibile: «Non sono ‘duro’» come dice il Corriere della Sera, «‘Pahor è troppo duro’, scrive, no, io sono chiaro, i fatti sono questi». E poi, Il Giornale: «Mi attacca, dice che sono comunista, che sono bugiardo», e smonta riga per riga le critiche e le accuse, per rimontare la Storia e collocare, a suo parere, tutti i pezzi al posto giusto. La ragione, sempre la stessa, ha una data e un fatto precisi: la festa di San Niccolo’ del 1920, mentre venivano distribuiti regali ai bambini, anche al piccolo Pahor di sette anni, nel Narodni Dom di Trieste (Casa della cultura slovena), fecero irruzione i fascisti che distrussero e bruciarono tutto. «Lì comincia il fascismo e nessuno sa cos’era il fascismo nella Venezia Giulia, quello antislavo». Dunque, «non si può parlare solo delle foibe senza spiegare cosa è avvenuto in precedenza». Cioè l’italianizzazione degli sloveni, anche nei cognomi, nella lingua, e poi «le torture, i soprusi, gli uomini di Mussolini spediti nei Balcani a fare i dittatori». «A Trieste nel 1938 in piazza Unità vengono proclamate le leggi razziali per gli ebrei, ma quelle nei confronti degli sloveni già esistevano». Occorre una domanda specifica per cambiare binario, per snidare Pahor dalla trincea dei ricordi e delle sofferenze; in conferenza gliela pone uno psichiatra, sostiene amaramente che Trieste non sembra mai la sua città. È quasi un colpo a sorpresa, per qualche istante il raziocinio indugia davanti all’emozione: «È una città amara ma amata, le sono attaccato fisicamente e con la mente». Dura solo qualche istante, poi riprende il sopravvento: «Non ha voluto aprirsi al retroterra e allora oggi abbiamo i cinesi e non gli slovacchi». Affollate le sue presentazioni e non solo di sloveni: persone che vogliono capire, tentare un approccio, ma le guerre hanno scavato un solco profondo e nessuno sembra accorgersi che le condizioni di allora non sono quelle di oggi, tra chi pensa di vantare ancora crediti e chi invece ritiene di aver pagato più del dovuto. Pahor, dal canto suo, continuerà con la sua Remington a rivendicare che dall’armadio della Storia vengano tirati fuori quei vecchi orbace e manganello.
Francesco De Filippo
Ansa 5 aprile 2012