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Bossi Fedrigotti: «Gente di frontiera ha chiavi per aprire case diverse» (Voce del Pop.13 ott)

Professionista della scrittura, nota in Italia e all’estero sia per la sua attività di giornalista – collabora al “Corriere della Sera” con articoli culturali e di costume, e cura rubriche di corrispondenza con i lettori – sia per quella di scrittrice, Isabella Bossi Fedrigotti sarà a Fiume martedì prossimo per le Giornate della Cultura e della Lingua italiana, e ciò in qualità di ospite della casa editrice EDIT. In previsione dell’atteso incontro, ci ha concesso quest’intervista, che facciamo precedere da alcuni cenni biografici.

 

La contessa Isabella Bossi Fedrigotti nasce a Rovereto di Trento nel 1948 da madre austriaca. Dopo aver trascorso un periodo della sua esistenza a Madrid, dal 1993 al 1997, oggi vive e lavora a Milano. Inizia scrivere quasi per gioco, all’età di dodici anni, esordendo nella narrativa nel 1980 con “Amore mio, uccidi Garibaldi”. Il secondo romanzo, “Casa di Guerra” (1983), la porta tra i finalisti del Premio Strega e del Campiello. Il successo a quest’ultimo arriva nel 1991, con il terzo romanzo, il bestseller “Di buona famiglia”, che attesta la raggiunta maturità di scrittrice dell’autrice, rivelando la sua straordinaria abilità di pittrice – impietosa e commossa a un tempo – dei crimini del cuore che albergano nell’animo femminile.

 

Del 1996 è “Magazzino vita”, cui fanno seguito “Il catalogo delle amiche” (2001), “La valigia del signor Budischowsky” (2003), “Il primo figlio” (2008) e “Se la casa è vuota” (2010), in cui racconta, sul filo dell’attualità,il modo in cui è cambiata la famiglia. E lo fa scandagliando i problemi, le sofferenze, i disagi, le inadeguatezze e la sostanziale solitudine presente nei, spesso ridottissimi, nuclei familiari contemporanei. Ha partecipato inoltre al volume collettivo sull’handicap infantile “Mi riguarda” (E/O1994). I suoi libri sono stati tradotti in varie lingue, compreso il croato: nel 2003 per l’editrice zagabrese Disput esce il suo romanzo “Il catalogo delle amiche”, con il quale è stata uno degli autori protagonisti alla Fiera del Libro di Pola nel dicembre 2003.

 

Presiede la Fondazione Masi di Verona, impegnata a promuovere e valorizzare il territorio, la popolazione, il patrimonio culturale, le grandi capacità dell’ingegno e produttive della Civiltà Veneta, anche attraverso il Premio Masi, che nell’edizione 2012 è stato assegnato pure al direttore del Centro di Ricerche storiche di Rovigno, Giovanni Radossi.

 

Parlando di cosa la ispiri e la sproni a scrivere, ha dichiarato di trovare gli spunti sia nei libri che legge sia nei fatti quotidiani: “La letteratura è figlia di altra letteratura, sempre, ma per smuovere la scrittura, nel mio caso ci vuole qualcosa di visto, ascoltato, sentito: vissuto dunque”.

 

In “Amore mio uccidi Garibaldi”, il suo romanzo di esordio, è palpabile la fine un’epoca e di una società aristocratica che verrà spazzata via dalla Grande Guerra. Ma nel romanzo trova posto anche il concetto di Tirolo come terra di frontiera allora come oggi, cosa ha significato per lei nascere in una terra di frontiera?


“Ha significato quel che significa per tutti coloro che vivono vicino a una frontiera, penso, e cioè doppia lingua e doppia cultura, il che equivale a possedere due chiavi capaci di aprire due case diverse. In più, penso che la gente di frontiera riesca, se lo vuole, ad avere visione un po’ più ampia in quanto deve sempre considerare due punti di vista, due voci, due ragioni”.

La sua scrittura è spesso una scorciatoia per indagare a fondo i legami familiari, svelando le tensioni e i rancori spesso celati in molti inferni domestici. La solitudine e l’abbandono sono due costanti presenti nei suoi romanzi, mi riferisco solo per citarne due a “Il primo figlio” e “Se la casa è vuota”.Perché questa indagine conoscitiva nel profondo dell’animo umano? Quale coscienza intorpidita intende risvegliare?


“Uno scrittore non intende niente, non vuole dare lezioni, non vuole insegnare né predicare. Vuole soltanto – io voglio soltanto – raccontare delle storie. Ed essendo, secondo me, la solitudine, la malattia del nostro tempo, sento il bisogno di analizzarla, di conoscere le ragioni per le quali se ne soffre, e lo faccio raccontando storie di solitudine e di abbandono”.

 

È una giornalista di grande esperienza e la sua rubrica sul “Corriere della Sera” è diventata un osservatorio sulla famiglia italiana. Dalle lettere che le arrivano emerge una tremenda solitudine che investe madri e figli. Cos’è cambiato in questi anni nella famiglia italiana?


“Le famiglie sono diventate piccole, spesso formate da due persone soltanto, una mamma e un bambino. Piccole e anche deboli perché si è ovviamente più deboli quando si è in due soltanto. E la debolezza di queste famiglie può avere conseguenze pesanti su quei bambini, quei ragazzi solitari, difficili da proteggere dalle devianze perché la fortezza – famiglia non riesce a fare baluardo contro i pericoli.

 

Umberto Galimberti, in tema di educazione, afferma che la cultura occidentale ha chiuso il futuro davanti ai giovani che non lo percepiscono più come possibilità ma come minaccia. La fotografia di un presente inquietante è partita da una constatazione: lo stato di sofferenza delle nuove generazioni è provato dal fatto che i giovani non sanno nemmeno nominare il disagio che provano.


“E questo accade perché non hanno il vocabolario delle emozioni, non vedono futuro perché vivono nell’ epoca delle passioni tristi”.

 

Oggi mancano i valori, lo scopo, i perché. Secondo lei stavano meglio i giovani di prima?


“Probabilmente sì, soprattutto – e penso ai ragazzi, agli adolescenti- perché un tempo in casa c’era sempre qualcuno, se non la mamma, qualche zia, forse i nonni, una voce amica, insomma, una luce sempre accesa. Oggi i ragazzi rientrano a casa e non trovano nessuno. Questo non vuol dire che le madri non devono lavorare – e chi potrebbe permetterselo? – ma che molte cose dovrebbero cambiare. Ad esempio, come sostiene lo stesso Galimberti, le scuole dovrebbero rimanere aperte fino a sera, luogo custodito dove i ragazzi possano ritrovarsi, leggere, studiare, fare sport o anche solo chiacchierare. E gli orari degli uffici, pubblici come privati, dovrebbero tenere conto dei dipendenti – uomini e donne – che hanno famiglia: magari con tempo di lavoro flessibile, magari evitando che le riunioni incomincino sempre alle sei di sera, orario fatale per chi ha figli a casa…”

 

Francesco Cenetiempo

“la Voce del Popolo” 13 ottobre 2012

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