di MONICA BAULINO
TRIESTE «Non esiste in Europa nessun caso in cui una tragedia storica sia stata così abilmente sfruttata a scopi politici fino ai giorni nostri». La tragedia cui si riferisce lo storico e politico Joze Pirjevec, intervenuto ieri a uno degli incontri conclusivi de ”I Cantieri della storia 2009”, è quella delle foibe, questione tutt’altro che risolta, ferita ancora aperta, alimentata da sentimenti mai sopiti.
«È la prima volta – ha detto Roberto Spazzali della Deputazione di Storia Patria della Venezia Giulia, moderatore della discussione – che studiosi sloveni e croati si incontrano in un’assise scientifica proprio a Trieste. Il mio auspicio è che un incontro simile avvenga prima o poi in Slovenia o Croazia, di modo da abbattere quelle barriere invisibili che continuano a manifestare la loro presenza».
«Non siamo riusciti – ha iniziato il dibattito Pirjevec – a farci aprire gli archivi serbi e soltanto parzialmente abbiamo ottenuto accesso a quelli russi». Nel suo discorso, Pirjevec ha paragonato la vicenda delle foibe a una tragedia greca «con un prologo, due atti, l’epilogo e addirittura un deus ex machina».
Il prologo: la convivenza sostanzialmente pacifica di due etnie nell’area da secoli mistilingue della Venezia Giulia, cui subentrò una prima presa di coscienza politica da parte delle popolazioni slave dal 1848 che offuscò «il filtro paternalistico attraverso cui gli italiani da Fortis a Tommaseo compreso guardavano alle popolazioni jugoslave considerate sostanzialmente ”buoni selvaggi”. Presa di coscienza che li trasformò al contrario in ”cattivi selvaggi”».
Il primo e il secondo atto, i due momenti in cui avvennero le uccisioni e gli infoibamenti: dapprima l’odio esploso dopo l’8 settembre del ’43 portò a reazioni violente in Istria dove furono gettate «400-500 persone nelle foibe in poco più di due settimane», poi il periodo dei cosiddetti quaranta giorni e la seconda più pesante ondata di uccisioni.
Il primo atto, però, secondo Pirjevec, ha un lato oscuro, ancor oggi poco esplorato: «nell’ottobre del ’43 i tedeschi penetrarono nella Venezia Giulia per impedire il controllo anglo-americano dell’area. In quest’occupazione ammazzarono almeno un migliaio di persone, di cui nessuno parla».
Poi l’epilogo e il deus ex machina: l’uso pubblico della storia, lo sfruttamento del tema delle foibe avviato già dai tedeschi nell’ottobre del ’43, «utile agli italiani per dimostrare quanto gli slavi fossero indegni di inglobare territori che l’Italia voleva per sé, tesi favorita dallo Stato fino al 1948».
In seguito, dopo la rottura di Tito con Stalin, Pirjevec sostiene che la tesi venne messa in sordina, lasciata alla mercé della politica locale, soprattutto da parte della destra, fino al 1991, all’indomani dello smembramento della Jugoslavia, quando assunse tratti ”nuovi”, fu riscoperta dallo Stato italiano, in un momento di crisi interna (la caduta della Prima Repubblica, l’emergere di forze secessioniste) e di evoluzione internazionale con la fine della Guerra fredda.
«Riscoperta tesa a ricompattare il popolo italiano e a suscitarne il patriottismo. Pure la sinistra ha manipolato la questione delle foibe – ha aggiunto Pirjevec -, arrivando a gonfiare le cifre dei morti anche oltre i 40 mila».
L’intervento di Darko Dukovski invece si è innestato in particolare sui fatti del ’43, sui quali a detta anche di Spazzali esiste un vero e proprio buco storiografico destinato ad allargarsi vista la progressiva futura mancanza di testimonianze dirette.
«Buona parte del materiale di Belgrado – ha aggiunto Nevenka Troha dell’Università di Capodistria – non è completa o accessibile, in particolare gli archivi sloveni dell’Ozna (i servizi segreti, ndr) e dei tribunali di guerra. La Serbia sostiene a riguardo che parte del materiale conservato al Ministero degli Interni sia andato distrutto durante il bombardamento della Nato nel ’99, ma mi permetto di esprimere le mie perplessità. È ancora chiuso inoltre l’archivio dell’Ufficio delle zone di confine».
Gorazd Bajc ha concluso riportando il punto di vista degli Alleati tramite l’analisi dei documenti raccolti a Trieste dall’intelligence anglo-americana nei ”quaranta giorni”, conservati a Londra e Washington, materiale che ripetutamente sottolineava «i toni esagerati, da ”regno del terrore”, che caratterizzavano le testimonianze lasciate dai cittadini italiani».