Bisognerebbe muoversi non con la fretta di arrivare da qualche parte, ma con l’intenzione di assaporare quello che ci circonda. Ambiente architettonico, urbano, naturale che diamo per scontato, al punto che a volte i turisti che si scattano foto con sullo sfondo l’Arena o altro monumento che sia, ci danno fastidio: impediscono il nostro affaccendato procedere e ci fanno perdere tempo. Quante volte ci siamo soffermati a guardare con occhio più attento un elemento così tenacemente presente nella nostra quotidianità? Quante volte abbiamo pensato all’ingegno che è servito per pensarlo? All’impegno e al sudore per costruirlo? In un pomeriggio pigro e tiepido di questo aprile così bizzarro da sembrare piuttosto un marzo pazzerello giunto con un pizzico di ritardo, cercando inutilmente asparagi (un po’ perché tanti non ce n’è per la scarsa pioggia, un po’ perché bisognerebbe avere una vista migliore e un po’ perché non crescono nel bel mezzo di una strada o di un limido e bisognerebbe per forza addentrarsi un po’ nell’incolto) intorno alla vecchia vigna che era stata del nonno, ancora prima del bisnonno e ancora prima… beh, questo albero genealogico all’inverso mi porterebbe lontano. Dicevo, dopo avere passeggiato intorno alla vecchia vigna, alla striscia di terra dove il nonno piantava il granturco e ancora un lenzuolo di terra dove seminava l’erba Spagna, mi sono seduta ai piedi del rovere che cresce, silenzioso e forte accanto alla casita che il mio bisnonno Giovanni con pazienza aveva tirato su, pietra dopo pietra. Nella casita, da bambina, ho giocato. Con un po’ di sacrosanto affanno: e se tra le sue pietre avesse trovato rifugio una biscia? Già il nonno (Toni) e mio padre mi avevano raccontato la storia della buasera (cervone, la biscia più grande d’Europa, domiciliata in qualche non meglio identificato posto vicino alla casita sul piaio – un anello di terra scosceso che circonda l’appezzamento -, alla quale mai mi sono avvicinata) che si era mangiata una lepre in un solo boccone. Sarà stato quel senso di beata solitudine, il silenzio surreale in una quotidianità solitamente fatta di rumori… ecco, in un attimo quella modesta valle ha srotolato davanti ai miei occhi il suo ieri. Il bisnonno, che in groppa all’asino entrava dal porter e che poi tutto il giorno, con la zappa, ricavava il pane da quella terra non sempre generosa. Le volte in cui la zappa non s’infilava nella terra come se fosse fatta di burro, ma veniva bruscamente fermata da una pietra, (bis)nonno Giovanni la recuperava, la ripuliva dalla terra e la metteva da parte. Forse sarebbe finita, come molte altre, sulla masera (il muretto fatto di pietre) che delimitava la proprietà o forse l’avrebbe usata per costruire una casita. Guardo le pietre grige della casita con uno sguardo diverso dal solito. Ognuna di queste pietre è passata per le mani del nonno. Se le accarezzo è trovare un lontano, lontanissimo passato. Forse, in qualche angolo più riparato, la pioggia e il vento non avranno lavato e soffiato via il tatto del nonno. Potenza di un silenzio quasi mistico, mi sembra quasi che le nostre mani si tocchino. Ruvida, stanca, consumata la sua, “cittadina” la mia.
Una concentrazione impressionante
La campagna del Dignanese ha una concentrazione impressionante di casite. Piccole case sorte di solito ai margini dei campi, per non sacrificare la terra da coltivare. Servivano da riparo per gli uomini e gli animali. Quando si andava a lavorare la terra a dorso d’asino o con il carro trainato dagli asini, solitamente vi si andava al mattino presto e si ritornava alla sera tardi. nelle ore in cui il sole era impietoso, si trovava un po’ di riposo e frescura proprio nelle casite. O ci si riparava quando un improvviso acquazzone costringeva a lasciare il lavoro e trovare un tetto. Capitava a volte, per il tanto tempo chiesto a percorrere la strada fino a casa e il mattino successivo per fare ritorno al campo, di trascorrervi la notte. E capitava ancora di trasformare la casita in una sorta di garitta. Quando si avvicinava il momento di raccogliere l’uva o quello che la terra aveva dato, bisognava difendere il raccolto dai potenziali ladri. Ma come veniva su una casita? Premettiamo, anche se non è proprio il caso di specificarlo, che nascono senza progetto; sono frutto del paziente lavoro e dell’acuto ingegno dell’uomo, che magari procede per tentativi, ma poi il risultato arriva. Noi possiamo fornire la teoria.
Le fasi di costruzione
Dunque, per prima cosa bisognava cercare un luogo riparato dal vento, in bonasa, che desse una visuale su tutta la campagna. Anche per la faccenda dei ladri delle fatiche altrui, di cui dicevamo. Eppoi, il terreno andava pulito dalla sterpaglia e da eventuali sassi. Individuata pa posizione, bisognava tracciare un cerchio, anzi due, per il muro perimetrale. Per farlo con precisione si usava dello spago e un bastone. Il bastone si metteva al centro di quella che sarebbe stata la casita, poi con uno spago più lungo si disegnava l’esterno del muro e con uno spago più corto (lo stesso, arrotolato più volte intorno al bastone) la parete interna. Diciamo che il muro avrebbe avuto lo spessore di 80-90 centimetri. Fatto questo, bisognava procedere con i lavori di scavo, come si fa oggi per le fondamenta della casa. quindi, mano al sapon (una zappa un po’ più robusta) si toglieva la terra dal cerchio. Bisognava lasciare uno spazio per la porta (l’apertura di solito veniva praticata verso ponente, per evitare la bora e le sciroccate). Fatto questo, pietre di dimensioni maggiori venivano disposte in parallelo lungo la linea esterna e quella interna del muro. I vuoti tra le pietre venivano riempiti di ∫gaia (pietrisco). Si procedeva così in altezza a tirare su il muro della costruzione. Lasciando, come detto, lo spazio per la porta. Giunti a un metro circa (forse anche un tantino meno), si delimitava la porta in altezza, mettendo il suier (oggi si direbbe, il montante superiore), un pezzo di pietra un po’ più lungo dell’apertura. Alle estremità del cerchio, la porta era delimitata dalle spalite. Mancava ancora una fila di pietre, per allineare tutto con il suier. Non che l’impresa fin qui fosse stata una passeggiata, ma adesso però arrivava davvero il bello. Bisognava dare corpo al tetto. E cambiava il materiale da costruzione. Via i sassi, diciamo, squadrati, in quasi blocchi, bisognava procedere con le laure (praticamente delle piastre): una fila sporgente di queste formava el pioverin e sopra iniziava el coverto. Un’incredibile opera di ingegneria edile! Intanto el coverto erano in effetti più coverti. Per il primo venivano usate laure più grezze e partendo dal muro perimetrale si saliva restringendo verso il centro. Al solito, per riempire i vuoti lasciati da queste piastre che solitamente erano più grezze, si ricorreva alla solita ∫gaia. Poi si procedeva con il secondo coverto, fatto di laure più belle, eleganti, quasi. Il tetto, insomma, si arricchiva di una forma anche estetica, oltre che pratica. Si procedeva pazientemente verso l’alto e non si finiva a punta, bensì con un quasi vuoto, sul quale veniva piazzata una laura più grande. Finito? Eh, no. Mancava il tocco finale: el pimpignol, un sasso quasi a cono, sagomato con la martellina, che veniva posto nel mezzo della laura, per fissarla. Adesso la casita era davvero fatta e finita. E gli arredi? Si prendeva quello che la campagna dava: grandi massi per sedersi (el sentador). Al limite, due sassi posti a poca distanza sui quali poggiare el sentador del carro (una tavola, praticamente). A volte, dipendentemente dall’estro del costruttore, la parte interna del muro presentava false finestre, che servivano da mensole. A volte le finestre erano vere, ma piccolissime, e servivano per vedere dall’interno tutta la campagna. Nel caso, una era rivolta verso el porter (l’entrata): guai a entrare, intrusi, nel campo altrui.
Patrimonio dell’umanità
Quanto ingegno. Quanta saggezza. Quanta maestria. Quanta arte. Saranno tutti i valori nascosti in queste costruzioni, la loro singolarità, la loro presenza – a volte in forma diversa – in tutta l’area del Mediterraneo, a (col)legare genti e popoli che, pur senza conoscersi, hanno dato al tempo e al luogo risposte uguali, a far diventare l’arte della muratura a secco Patrimonio dell’umanità. Ha un suo fascino sapere che qualcosa lega uomini e civiltà affacciati sullo stesso mare, che la pietra ci unisce oltre il tempo e i confini. Croazia, Italia, Spagna, Grecia, Francia… Truddu, casieddu, pagghiaro, cabanes, nuraghi, trulli, bunje… i nomi sono diversi, gli ingredienti gli stessi. Pietra, sudore, ingegno.
Dignano ha dedicato alla casita un Parco, nel quale ne ripropone le fasi edificative. Mi piace pensare che non sia solo dedicato alla costruzione, ma anche a quanti ne hanno disseminato il territorio. A tutti quei (bis,tris)nonni – Giovanni, Zuane, Checco, Jacomo, Toni, Piero… – che hanno vissuto e plasmato il territorio.
Niente asparagi, oggi. Un leggero venticello suggerisce che è giunta l’ora di ritornare a casa. Domani ai mercati cittadini. Chi ha avuto più fortuna e occhio di me certamente di asparagi ne avrà raccolti.
Carla Rotta
Fonte: La Voce del Popolo – 25/05/2022