Da una narrazione agiografica, scriteriata e a tratti melensa, a un revisionismo tout court, altrettanto disinvolto e a momenti dissacratorio. Prima poco meno che “santo” ora quasi “mostro”. È lo strano caso di Giovanni Palatucci. Nei giorni scorsi – praticamente alla vigilia della Giornata dell’Antifascismo in Croazia (quel che si dice la coincidenza!) – è rimbalzato sulle principali testate italiane ed estere in seguito a una presa di posizione del Centro “Primo Levi” di New York, che ha prodotto uno studio basato sull’esame di circa 700 documenti italiani e tedeschi sulle sorti degli Ebrei fiumani.
E che cosa si dice in esso? Che Palatucci, proclamato nel 1990 Giusto delle Nazioni, dichiarato martire e poi Servo di Dio nei primi anni Duemila da papa Giovanni Paolo II, non fu altro che uno zelante esecutore della politica fascista. “Non rappresenta altro che l’omertà, l’arroganza e la condiscendenza di molti giovani funzionari italiani che seguirono con entusiasmo Mussolini nei suoi ultimi disastrosi passi”, ha scritto la direttrice del succitato Centro, Natalia Indrimi, in una lettera inviata al Museo dell’Olocausto di Washington. Sottolineando che nel 1943 a Fiume era rimasto appena mezzo migliaio ebrei, la maggior parte dei quali, 412, pari all’80 per cento, finì ad Auschwitz. La reazione non si è fatta attendere: il Museo ha “sfrattato” Palatucci dalla mostra “Alcuni erano vicini”, lo Yad Vashem (il Memoriale che assegna il titolo di Giusto delle Nazioni) di Gerusalemme e il Vaticano starebbero riflettendo sul da farsi.
La rilettura della vicenda Palatucci è partita qualche settimana fa dalla Grande Mela, prendendo la rincorsa dai lavori di un simposio su Palatucci, organizzato dal Centro “Primo Levi” presso la Casa italiana “Zerilli Merimò”. Vi ha preso parte, fra gli altri, quell’ex direttore del Dipartimento Giusti di Yad Vashem, Mordechai Paldiel, che, scrivendo il 10 luglio 1995 a Thomas Palatucci, congiunto newyorchese del Giusto, così motivava l’onorificenza: “Avvertì gli ebrei del fatto di essere ricercati, li nascose con l’aiuto di suo fratello, il vescovo locale (lo zio Giuseppe Palatucci, vescovo di Campagna, ndr) o li aiutò a salpare per Bari, dietro le linee alleate. Molti ebrei furono salvati a motivo dei suoi sforzi”.
All’incontro newyorchese ha partecipato pure lo studioso triestino Marco Coslovich – lo avevamo ospitato, come Comunità degli Italiani, due anni fa a Fiume, a Palazzo Modello –, autore del volume “Giovanni Palatucci. Una giusta memoria” (Mephite, Salerno, 2008). Coslovich segnala da anni una serie di dubbi sull’opera di Palatucci, ridimensionando l’incisività della sua azione in favore degli Ebrei. Secondo lui, il vice commissario aggiunto, responsabile dell’Ufficio stranieri, fu un “funzionario modello”, fidatissimo, che applicò le leggi razziali italiane e dopo l’8 settembre, aderì alla Repubblica di Salò. Poi fu accusato di appropriazione indebita e di tradimento per aver passato ai nemici inglesi alcune informazioni sulla Repubblica di Salò, con l’obiettivo di trattare l’indipendenza di Fiume. E difatti, se i nazisti lo deportarono a Dachau – dove morì nel febbraio 1945 a soli 36 anni –, non fu perché si oppose alla Shoah, ma per i suoi contatti, di cui parla un documento firmato dal famigerato ufficiale delle SS Herbert Kappler, con i servizi segreti angloamericani.
La ricerca condotta da un comitato internazionale di storici, che hanno analizzato la documentazione esistente negli archivi italiani e croati, rileva che Palatucci avrebbe pedantemente aggiornato – e non distrutto – le liste dei ricercati, a disposizione dei tedeschi. E all’Archivio di Stato di Fiume si conservano ancora gli ordini di cattura che portano la sua firma. Chi ha avuto modo di prendere in visione gli incartamenti della Questura fiumana, come l’archivista Boris Zakošek, conclude che fino all’Armistizio del ’43 Palatucci ebbe a cuore le sorti degli Ebrei molto più di quanto competesse a un funzionario e di quanto prevedessero le direttive del ministero dell’Interno. Fece urgenza sul rilascio dei visti, per favorire l’esodo verso il futuro Israele di quanti provenivano dallo Stato indipendente di Croazia (NDH), ma anche dall’Ungheria, dall’Austria e da altri Paesi, bloccati dalla Capitaneria di porto di Fiume. Zakošek, dunque, non pone in forse il suo contributo alla salvezza di parte degli Ebrei, ma parla di “decine” e non di migliaia (è di 5.000 la cifra che circolava finora) di persone.
“Chi salva una vita salva il mondo intero”, dice il “Talmud”. E la qualifica di Giusto, questo lo sappiamo, non è un fatto quantitativo. Di certo è che Palatucci salvò Elena Aschkenasy e la sua famiglia. Ma è altresì vero che sul caso Palatucci le ricerche storiche di prima mano sono state poche, che numeri e fatti sono stati sottoposti a interpretazioni agiografiche, che il “mito” è stato pompato da giudizi frettolosi e dagli osanna di certa fiction (il romanzificio televisivo ha raramente reso favore alla verità storica). Sarebbe però altrettanto sbagliato procedere con un’altrettanto spregiudicata demolizione. Lasciamo che siano i documenti a fare luce sulle tante zone d’ombra. Attendiamo quindi che l’annunciato nuovo dossier su Palatucci sia prontamente e liberamente consultabile. Da quanto letto finora, francamente, non ci pare sia emerso alcunché di sostanzialmente inedito, rispetto a quanto avevamo già sentito, da screditarlo.
Ilaria Rocchi
“la Voce del Popolo” 26 giugno 2013
L’Archivio di Stato di Fiume