Chiudamo il ricordo di Padre Flaminio Rocchi, nel centenario della sua nascita, con il testo dell’intervento proposto da Marino Micich all’incontro-ricordo del 6 giugno presso la biblioteca di San Marco Evangelista a Roma, per iniziativa della famiglia Rocchi.
Padre Flaminio Rocchi è sicuramente una delle figure più emblematiche della storia degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Nativo dell’isola di Lussino (Neresine), dimostrò sempre un attaccamento profondo e sincero alla sua terra e alla sua gente. Non ricorderò in questa sede l’impegno di Padre Flaminio in qualità di frate francescano, ma è doveroso in questa giornata di commemorazione nel Quartiere Giuliano-Dalmata sottolineare l’opera da lui profusa verso la terra istriana nel corso della sua lunga vita. Un’esistenza, quella di Padre Flaminio, costellata di episodi estremamente drammatici, che lo hanno spinto con non comune determinazione a dedicarsi, come pochi altri hanno saputo fare, alle molteplici battaglie civili e culturali a favore degli esuli istriani, fiumani e dalmati.
Io non ho avuto la possibilità, come può averla avuta Patrizia C. Hansen, di operare direttamente al suo fianco, ma sin dal 1993, anno in cui ho iniziato la mia attività presso l’Archivio Museo Storico di Fiume, ho potuto conoscerlo meglio e dialogare con lui sulle nuove e antiche problematiche legate alla Questione Adriatica che, dopo la dissoluzione definitiva della Jugoslavia socialista avvenuta dopo un sanguinoso conflitto tra le varie etnie slave tra il 1991 e il 1999, sembra aver trovato nuovi sbocchi e attenzioni nel nuovo contesto di unificazione europea. Nonostante la risoluzione dei numerosi e gravi problemi sorti in seguito all’esodo dei giuliano-dalmati molte ancora, mi raccontava Padre Rocchi, erano le ingiustizie e le inadempienze del governo italiano nei confronti degli esuli e dei loro discendenti, e posso ben dire di averle potute constatare personalmente nelle varie sedi ministeriali in cui mi sono trovato ad operare su incarico della Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati.
Prima del Giorno del Ricordo
Certamente, negli anni in cui ha operato Padre Rocchi non esisteva una legge sul ricordo delle vicende del nostro confine orientale, il Comune di Roma non pensava di favorire l’apertura di una Casa del Ricordo dell’esodo, il Ministero dell’Istruzione (MIUR) non organizzava, con le associazioni degli esuli accreditate, seminari nazionali di formazione per docenti o concorsi a premi per studenti sui temi della nostra frontiera orientale. Erano anni, quelli del lungo dopoguerra, in cui il drammatico e lungo esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati si protraeva in un clima di indifferenza, se non a volte di aperta ostilità.
Era un periodo in cui le stesse associazioni degli esuli erano viste con circospezione e sospetto da diverse parti politiche, soprattutto quelle che si definivano democratiche e progressiste. Molte menzogne venivano dette allora sul conto di un popolo incolpevole. Padre Flaminio, come la stragrande maggioranza degli esuli della prima generazione, non ha potuto salutare la legge del Giorno del Ricordo (n. 92) varata solo nel 2004 con una larghissima maggioranza di voti dal Parlamento italiano; bisogna però dire che Padre Rocchi ha assistito al crollo simbolico del Muro di Berlino nel 1989 e alla dissoluzione violenta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, uno Stato che tante sofferenze ha inferto alle popolazioni civili della Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia a guerra finita. In quegli anni, non troppo lontani, in cui si sono gettate le basi per una rivalutazione e quindi per una riscoperta degli italiani dell’Adriatico orientale, Padre Rocchi, c’era ed era ben pronto ad attivarsi di nuovo per la Causa della sua gente. L’avanzata età non gli concedeva di spendere azioni e parole per il nuovo e necessario dialogo da intraprendere con le terre di origine, ma non gli impediva, in quegli anni di mutamenti geopolitici eccezionali, di riattivarsi e battersi con efficacia per la difesa dei diritti negati agli esuli o per quelli non ancora del tutto riconosciuti e perfezionati. Rimarrà soprattutto nella memoria, l’impegno di Padre Flaminio per la questione relativa ai beni abbandonati, anche se va detto che riuscì a fare molto di più.
L’impegno a favore dei suoi profughi
Nei primi anni del secondo dopoguerra, terminato il suo compito di cappellano militare, Padre Rocchi insieme ad altri esponenti giuliano-dalmati si batté presso politici e nelle sedi ministeriali competenti affinché si attivassero tavoli di lavoro adeguati per la soluzione delle gravi questioni che pendevano, come la spada di Damocle, sulla testa delle popolazioni civili della Venezia Giulia. Padre Rocchi, pur avendo contatti frequenti con i primi Comitati giuliani sorti sin dal 1944, iniziò a dedicarsi dalla seconda metà del 1947 in poi, con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e con l’apporto di altre realtà associative dell’epoca tra cui il Comitato di Liberazione Nazionale Istriano (CLNI), alla causa dei profughi giuliani e dalmati. Egli contribuì, non senza difficoltà, a tirar fuori i profughi giuliane e dalmati, vittime di una politica ingiusta e antidemocratica da parte del regime comunista jugoslavo di Tito, da una condizione di povertà generica e a farli dichiarare, con decreto prefettizio, una «comunità giuridicamente protetta» attraverso il riconoscimento della qualifica di «profughi di guerra» .
Nel gennaio del 1947, poco prima della firma dell’oneroso Trattato di pace a Parigi, era sorto il Comitato Nazionale Rifugiati Italiani, che confermò ai più alti livelli tale status giuridico concesso dal governo italiano ai giuliani e dalmati che cercavano riparo nel resto d’Italia. Il governo riconosceva in quel modo, seppur tardivamente, al profugo giuliano il diritto a un’assistenza particolare. «Il profugo, con la scelta forzata dell’esodo», ricordava spesso Padre Rocchi anche nei suoi discorsi pubblici «ha salvato la vita e la dignità di uomo, la libertà di cittadino italiano, la fede del credente e l’appartenenza alla cultura latino-veneta».
Nel 1948 nacque, dopo lo scioglimento del Comitato Nazionale Rifugiati, l’Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati, un ente morale diretto fino al suo scioglimento da Aldo Clemente. L’Opera Profughi, che ebbe quale primo presidente Oscar Sinigaglia, diede il via a un piano ben organizzato di assistenza e di reinserimento degli esuli nella vita sociale ed economica del Paese, che dovrebbe servire da esempio a molti enti pubblici italiani ancora oggi attraversati da malcostume, da frequente corruzione e da gravi inadempienze di ogni genere. Qualche mese prima che l’Opera Profughi venisse costituita, Padre Rocchi, dietro il benestare del vescovo Antonio Santin e di altri suoi superiori dell’Ordine francescano, iniziò a occuparsi alla fine del 1947 dei giovani profughi rimasti orfani o appartenenti a famiglie disagiate e che erano state divise dalle autorità jugoslave. Spesso capitava in quegli anni il caso di famiglie, in cui solo un genitore otteneva il permesso di lasciare la propria città o paese, magari con i figli, mentre l’altro rimaneva in attesa di un permesso che poteva arrivare anche dopo mesi e mesi; questo perché il governo italiano, con la stipula del Trattato di pace parigino, aveva dovuto lasciare mano libera a una commissione jugoslava per l’attuazione del diritto di opzione. Si può immaginare l’estremo bisogno di assistenza che avevano questi giovani sventurati, i quali dopo giorni e giorni di durissimo viaggio giungevano disorientati e sofferenti alla Stazione Termini di Roma (o di altre località), in cerca di una sistemazione dignitosa. Ebbene, Padre Rocchi decise di essere in prima linea tra i designati ad attendere tanta gioventù, per confortarla, trasferirla in qualche convento o in qualche centro allestito provvisoriamente dall’allora Ministero dell’assistenza post-bellica. Padre Rocchi si premurava con altre persone, che troppo spesso vengono dimenticate nelle pubblicazioni e nei vari notiziari degli esuli, a fornire pasti caldi e tutto quello che poteva confortare un profugo.
Padre Rocchi divenne così il direttore del primo collegio «Figli dei profughi» nel quartiere romano dell’EUR, in un edificio rimasto semi abbandonato per gli effetti della guerra sin dal 1943. Non era facile trovare gli aiuti adeguati, come dice Padre Rocchi nel suo ultimo libro L’Istria dell’Esodo:
«A Roma la situazione era difficile anche perché l’Ufficio dell’Assistenza Postbellica di Piazza Nicosia era in mano al Sottosegretario comunista Vittorio Sereni. Il primo Comitato era nato timidamente in Corso Vittorio, poi si era trasferito a Piazza Cavour, poi in via Caroncini, poi ancora in Piazza della Pigna e infine a Via Leopoldo Serra».
Gli anni duri del dopoguerra
In quegli anni i viaggi dei profughi per giungere nelle sedi demandate, come si può ben immaginare, non erano facili da intraprendere. La propaganda comunista e le organizzazioni sindacali vicine al PCI inscenavano scioperi alle stazioni ferroviarie e portuali per protestare contro l’arrivo dei giuliani. Famoso rimane l’episodio avvenuto alla stazione di Bologna nel febbraio 1947, ma avendo analizzato ultimamente altra documentazione in mio possesso, possiamo dire che altri spiacevoli casi di protesta contro l’arrivo dei profughi giuliani ci furono nei porti di Venezia e di Ancona. Gli esuli, vecchi donne e bambini, venivano indicati dai facinorosi e da numerose sedi dell’ANPI come dei pericolosi fascisti in fuga; ma erano solo italiani. Italiani che avevano sacrificato tutto pur di rimanere liberi e se stessi e che avevano pagato i debiti per danni di guerra alla Jugoslavia di Tito per tutta la nazione italiana con l’esproprio e il sequestro dei propri beni.
Nel 1949, narra Padre Rocchi, sempre nel suo libro L’Istria dell’esodo, fu ordinato alle questure di fare per ogni profugo una scheda segnaletica con fotografia e con impresse le impronte digitali. Tale procedura fu persino richiesta a monsignor Raffaele Radossi, già vescovo di Pola e poi Arcivescovo di Spoleto, il quale indignato scrisse a De Gasperi di far ritirare quella circolare umiliante e non compatibile con un governo democratico, concludendo la sua lettera così: «La prego Eccellenza illustrissima di non nominare noi poveri esuli nei Suoi discorsi. Dispiacentissimo Arcivescovo Raffaele Radossi, profugo istriano».
In quel difficile contesto politico e sociale la Chiesa cattolica fu molto vicina agli esuli, come lo furono anche alcuni ambienti ebraici. Si può affermare che fu eccezionale il contributo di assistenza offerto dalla Chiesa ai profughi giuliani soprattutto negli anni che vanno dal 1945 a tutto il 1948, quando la presenza governativa era assai scarsa e insufficiente. Solo dopo il 1948 ci fu un intervento più deciso e articolato da parte dalle autorità governative italiane. Padre Rocchi era presente anche in quel triste periodo pronto a spendersi per la Causa! Successivamente, con la stipula dei vari trattati tra Italia e Jugoslavia, Padre Rocchi perfezionò il suo impegno passando dall’emergenza sociale a occuparsi dei problemi di carattere legislativo, ottenendo importanti risultati e lasciandoci il suo famoso libro dedicato alla storia dell’esodo dei 350.000 istriani, fiumani e dalmati, opera che per moltissimi anni rimase ineguagliata per la grande mole di dati e informazioni in essa raccolte.
Leggi e benefici per gli esuli
Grazie all’altro libro che ho citato più volte, L’Istria dell’Esodo, si può ricostruire nel dettaglio l’evoluzione storica dei provvedimenti di legge varati a favore dei profughi giuliani e dalmati che illustra un lavoro svolto da Padre Flaminio con l’apporto dell’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, che prima delle divisioni e della nascita dei Liberi Comuni di Pola, Fiume e Zara e delle varie Unione degli Istriani e Associazione delle Comunità Istriane avvenute negli anni Sessanta, era l’unico e sicuro punto di riferimento per i profughi sparsi in oltre 109 campi situati in tutta la penisola e nelle isole maggiori. Padre Rocchi divenne membro dell’Associazione per lo studio dei rifugiati (AWR), che è ancora oggi un organo consultivo dell’ONU e del Consiglio d’Europa, e fece parte di molte organizzazioni d’assistenza ai rifugiati tra cui l’IRO (International Refugees Organization).
Nel 1994, dopo un lunghissimo periodo di crisi per l’associazionismo giuliano che fece seguito alla cessione dell’ultimo lembo di terra istriana (Zona B) stabilita con la firma del Trattato di Osimo nel 1975, Padre Rocchi grazie alle offerte di esuli perché altre entrate non ve ne erano, riusciva ancora a far pubblicare la Difesa Adriatica e a tenere aperta la segreteria dell’ANVGD e le attività della Presidenza Nazionale. A parte le associazioni con sede a Trieste che hanno sempre goduto dei finanziamenti dall’ente regionale del Friuli Venezia Giulia, tutto l’associazionismo con sede in altre parti d’Italia (tra cui quello fiumano che ha tuttora sede a Padova e a Roma presso l’Archivio Museo di Fiume), si è sempre retto sulle offerte di soci e simpatizzanti o lasciti di benemeriti.
Dal 2002 si sono ottenuti nuovi finanziamenti con la Legge n. 72/2001, ma spesso tali nuove possibilità, a mio avviso, non hanno eguagliato l’opera e l’azione che Padre Flaminio seppe portare avanti con disponibilità finanziarie assai più esigue. Sempre nel suo libro L’Istria dell’Esodo Padre Rocchi richiama tutti gli interventi e i dispositivi legislativi a favore dei profughi, tra cui ricorderò solo il Decreto ministeriale n. 556 del 1948 col quale fu riconosciuta la qualifica di profugo, la Legge n. 137 del 1952, che confermò quel primo decreto e le agevolazioni, più che giustificate, per ottenere i benefici ai concorsi per il lavoro. Tante altre leggi vennero varate per la concessione di sussidi di vario genere e di altre forme assistenziali, tra cui il ricovero di profughi bisognosi anziani in Case di Riposo.
In memoria delle vittime delle Foibe
Accanto a questo grande lavoro legislativo Padre Rocchi ha portato sempre avanti con cristiana pietà e argomentazioni storiche, la battaglia per denunciare i crimini delle foibe, fornendo più documentazione possibile a riguardo e battendosi affinché le foibe in territorio italiano di Monrupino e di Basovizza fossero dichiarate monumento nazionale. A pag. 202 del suo ultimo libro L’Istria dell’Esodo Padre Flaminio dirà, rivolgendosi al Signore degli infoibati queste toccanti parole:
«Si o Signore, noi crediamo che essi usciranno da queste catacombe carsiche e ai Tommasi increduli mostreranno le loro cicatrici dicendo – Nel maggio 1945, mentre il mondo celebrava la pace, noi abbiamo sofferto questo calvario per salvare la nostra dignità di uomini, la libertà di italiani, la nostra fede di credenti. Siamo stati con Cristo nella morte, resteremo attaccati a lui anche nella Resurrezione. Cosi sia!».
Padre Rocchi d’intesa con l’ANVGD si è battuto affinché nei documenti personali dei profughi non apparisse la scritta nato in Jugoslavia oppure favorendo la comunicazione dell’ISTAT del 1999, che conferiva un codice a ogni Comune allora italiano della parte di Venezia Giulia ceduta agli jugoslavi per togliere la sigla JU. Quanto poi è stato fatto per la collocazione al lavoro di oltre 62.000 esuli, per facilitare l’assegnazione di alloggi e l’estenuante opera svolta per la soluzione della questione degli indennizzi per i beni abbandonati e per la loro restituzione nei casi previsti non sta a me continuare a ricordarlo nel dettaglio, poiché andrebbe ben oltre i fini di questa giornata commemorativa voluta dalla famiglia Rocchi, che ringrazio per avermi voluto invitare. Le opere svolte in tantissimi anni parlano da sole.
Per concludere, bisogna aggiungere che per poter svolgere con dovizia e completezza di informazioni un’analisi esaustiva sull’opera di Padre Flaminio Rocchi, occorrerebbe promuovere nuovi studi da presentare in una lunga serie di convegni di studio e non con una semplice relazione a scopi rievocativi, pertanto auspico l’ANVGD e altri enti di studio di attivarsi in tal senso. Non corriamo il rischio paradossale di essere proprio noi a rimuovere tanta storia e attività profusa con passione, capacità e impegno non comune. Di questo dobbiamo esserne tutti consci per poter in futuro promuovere studi e convegni non solo su Padre Flaminio, ma anche su altre persone (Oscar Sinigaglia, Marcella Mayer, Guglielmo Reiss Romoli, Tommaso Ciampani e tanti altri), che nel dolore hanno saputo, insieme a Padre Rocchi, sempre e comunque infondere fiducia e speranza a un popolo di circa 350 mila persone.
Padre Flaminio, quando mi veniva a trovare al Museo di Fiume nei primi anni Novanta oppure ci incontravamo per strada, terminava i discorsi con parole di incoraggiamento e di speranza. Usava dirmi alla fine «ma chi penserà a voi più giovani che gavè dirito più dei altri a trovar un lavoro e veder tutelada la storia dei padri». Parole significative che ricordo sempre con vera commozione nella mia attività quotidiana per la Causa giuliano-dalmata; così come ricordo i suoi insegnamenti pacati ma decisi per perseguire gli obiettivi che in parte sono ancora da raggiungere o quanto meno da difendere. Padre Rocchi appartiene a quella schiatta di religiosi eccezionali istriani, quarnerini, fiumani e dalmati che portano il nome di Antonio Santin, Alfonso Orlini, Giuseppe Del Ton, Ugo Camozzo, Eleuterio Lovrovich, Doimo Munzani, Luigi Maria Torcoletti e di altre centinaia di religiosi che hanno seguito il loro popolo in esilio condividendone i disagi, le ansie e le sofferenze; ma anche a quei religiosi che hanno dato anche la vita per la loro comunità e per la libertà, finendo martirizzati e gettati in qualche foiba o annegati in mare. Padre Rocchi sarebbe stato il primo della lista ad essere perseguitato dai titini, ma la Provvidenza non lo destinò al martirio bensì alla lotta, fino al raggiungimento dei 90 anni, per la tutela della sua gente (sono ben 150 i provvedimenti legislativi da lui promossi).
L’ultimo saluto
Nella prefazione del libro L’Istria dell’Esodo Padre Rocchi si esprime con queste ultime parole, che ritengo molto significative e in un certo senso sanno di commiato:
«Ho visitato la povertà e la solitudine del campi profughi, ho ricevuto migliaia di lettere. Con i profughi ho pregato, ho sofferto, ho sperato. Mi auguro che essi si ricordino di me, come di un francescano profugo che ha trasformato il suo sacerdozio nella nobilissima missione di Pace e di Bene. In questo lavoro mi hanno sostenuto la passione e la rabbia di profugo e l’orgoglio di essere figlio di San Francesco, patrono d’Italia. È un fatto storico che egli abbia fondato il convento di Zara. Ma la leggenda dice che è stato anche nella mia piccola isola di Lussino».
Termino qui il mio breve ma sentito ricordo di Padre Flaminio, che ha voluto vivere gli ultimi anni della sua vita nel nostro Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma accanto alla nostra comunità di circa 2.000 persone, condividendo le piccole feste, partecipando a convegni e celebrando messe e altre funzioni religiose. Padre Flaminio si è accomiatato da noi il 9 giugno 2003. Ero presente al suo funerale. Era una giornata calda ma ventilata, la gente era commossa e pregava in silenzio, rimasi molto colpito dall’ultimo saluto che diedero a lui i suoi fratelli francescani, una dimostrazione ulteriore che quel giorno abbiamo perso una figura eccellente, alla quale tutti dobbiamo l’onore del ricordo, la stima e perpetua riconoscenza.