Il 3 luglio 1913 nasceva a Neresine, sull’isola di Lussino, Padre Flaminio Rocchi, l’apostolo degli Esuli giuliano-dalmati. Per ricordare il centenario della nascita, pubblichiamo il testo dell’intervento di Patrizia Hansen, direttrice di “Difesa Adriatica”, all’inocntro-ricordo organizzato dalla Famiglia Rocchi lo scorso 6 giugno. Seguiranno i testi degli altri interventi, ovvero Adriana Martinoli e Marino Micich.
Desidero anzitutto porgere il mio sentito ringraziamento alla famiglia Rocchi, al signor Giuseppe e alla cara signora Silvana, per avermi offerto l’occasione di condividere con Voi tutti alcuni dei ricordi che conservo del nostro Padre Rocchi.
Mi accorgo meglio, in realtà, che molti anni sono trascorsi nel frattempo, sia dalla scomparsa di Padre Rocchi, esattamente dieci, e ancora più dall’inizio della mia collaborazione alla ripresa delle pubblicazioni di “Difesa Adriatica”. Sì, perché la “Difesa”, uscita costantemente sin dal 1947, nel 1991 interruppe le sue pubblicazioni per decisione della presidenza di allora e in considerazione di una sfavorevole congiuntura economica. Restavano dunque improvvisamente senza notizie e senza un organo di informazione e di relazione migliaia di esuli, per i quali Padre Flaminio era da sempre – e lo rimase nel tempo – il solo ed essenziale riferimento per l’annosa questione degli indennizzi, per le tutele giuridiche ed economiche, per tutto un insieme di attività che egli garantiva, da solo, nella sede di Roma a favore delle comunità profughe di ogni parte d’Italia.
Era per lui, questa sospensione sine die della pubblicazione della storica “Difesa”, un cruccio fortissimo: sapeva bene che se si fosse spezzato quel filo connettivo con gli esuli la sopravvivenza stessa dell’Associazione sarebbe stata messa in serio rischio. Ed aveva perfettamente ragione, in un tempo peraltro in cui non erano ancora diffuse la comunicazione telematica e tutte le nuove modalità di connessione e di interazione con il mondo che oggi conosciamo e utilizziamo.
La ripresa di “Difesa adriatica”
Padre Rocchi conosceva la mia famiglia, la parte materna, fiumana, e ogni tanto, ancora negli anni Settanta, ero andata a trovarlo nella sede di Piazza della Pigna. Ma gli impegni di studio prima e le diverse esperienze di lavoro poi mi tennero per lungo tempo lontano dal frequentare con regolarità l’Associazione, benché l’interesse per il tema dell’esodo e per il profilo culturale della storia fiumana in particolare mi ha tenuto sempre ben saldamente ancorata a quel contesto.
Un motivo di rinnovato contatto con Padre Rocchi mi venne dal compianto prof. Luciano Muscardin, illustre clinico e personalità d’eccellenza della comunità giuliano-dalmata, il quale – avendo saputo dell’intenzione di Padre Rocchi di riprendere, a sue spese, la pubblicazione di “Difesa” – aveva caldeggiato molto, prima della sua improvvisa scomparsa nel 1993 – la mia “candidatura”.
La sua iniziativa ebbe subito ottimi e dunque incoraggianti riscontri: l’investimento nella stampa e nella spedizione del giornale si rivelò un successo, anzitutto perché tramite “Difesa” egli poteva nuovamente raggiungere un ampio numero di esuli in Italia, informarli e sollecitarli, cosa peraltro che aveva fatto e continuò a fare anche per corrispondenza, famiglia per famiglia e individualmente, in un incessante lavoro di stesura e di invio di lettere a mezzo mondo, e telefonicamente: sempre presente in sede, sempre a disposizione di chiunque per fornire supporto e suggerimenti per la compilazione di una richiesta, per la soluzione di un problema, per il semplice ascolto di ogni genere di petizioni o semplicemente di ricordi.
Il suo lavoro quotidiano era improntato alla pragmaticità e sostenuto dalla padronanza delle norme giuridiche e dalla consapevolezza degli insidiosi grovigli della pubblica amministrazione. A decine di profughi che ogni giorno gli telefonavano forniva a istruzioni e suggerimenti su come stilare correttamente le domande di indennizzo: nella sua persona si riassumevano infatti competenze diverse e tutte puntuali: e, vorrei sottolineare, tutte sostenute da una capacità rara di inserire problemi e situazioni in contesti e ragionamenti più ampi, dunque di esaminare i diversi aspetti delle cose sotto una lente più forte. In questo lo assisteva la sua preparazione culturale, eminentemente umanistica oltre che naturalmente teologica, e la sua conoscenza dell’uomo e del mondo.
Sì, perché Padre Rocchi, pur vestendo il semplice saio dei Frati Minori, intendeva i meccanismi della società umana, la complessità delle relazioni, la trama che l’esistenza tesse intorno a ciascuno; e in più aveva frequentato, uso questo verbo non casualmente, i disagi e le sofferenze dei campi profughi di mezza Italia che aveva visitato nel corso degli anni, e dei quali ha lasciato nitide e commosse testimonianze nei suoi tanti scritti. Aveva accumulato insomma, questo mi pareva evidente dalle conversazioni con lui, una grande e varia esperienza dell’umanità, che ritengo gli sia stata molto utile nel suo impegno a favore degli esuli.
Forse proprio questa profonda conoscenza delle cose e degli uomini gli aveva donato anche una certa salutare ironia, che non mancava di esercitare con qualche rapida battuta inframmezzata nei discorsi. Uno strumento, quella ironia, utile anche ad entrare in quel mondo macchinoso, intricato e diffidente della burocrazia italiana, con la quale egli ebbe a che vedere e lottare per decenni a beneficio dei “suoi” profughi.
Tornando al giornale, mi piace ricordare come egli tenesse a che i primi numeri della nuova “Difesa” venissero adeguatamente preparati in sede tipografica. In quei primi anni Novanta l’impaginazione veniva ancora effettuata a mano, ritagliando le “strisciate” dei testi battuti e attaccando con la colla le colonne così ottenute sul menabò. Preistoria, e comunque Padre Rocchi compariva puntualmente ogni mese in tipografia mentre si lavorava con il tipografo a comporre le pagine. In realtà, ed apro una parentesi, Padre Rocchi era temutissimo dai tipografi, per la sua inclinazione a non consegnare mai definitivamente un suo testo ma a tornarvi su nella prima, seconda, terza bozza per correggere, aggiungere e modificare, ed ogni bozza che restituiva corretta al tipografo era una selva di post-it e di aggiunte a mano che il “compositore”, quello che doveva ri-battere il testo, doveva prima interpretare poi inserire.
Teneva molto al “prodotto” finale, la “Difesa”, alla quale aveva affidato tutta la sua speranza di recuperare all’Associazione quelle migliaia di esuli rimasti senza uno strumento di informazione e di connessione tra comunità, e a quel tempo l’unica fonte di risorse per l’Associazione stessa e per molta parte della sua attività assistenziale. Aveva anche molto piacere di scrivere articoli e commenti sulla rinata “Difesa”, connotati da quel suo stile efficace, mai ripetitivo ma sempre fortemente evocativo. Per lui scrivere e farsi leggere significava rinsaldare un fortissimo rapporto con i suoi corregionali, con la comune storia, con i comuni luoghi di origine e, credo, significava inoltre testimoniare la persistenza di una “questione” che non si era chiusa, di una memoria che non si doveva affievolire, di un diritto che doveva affermarsi con azioni quotidiane, di impegno costante anche se faticoso, in un tempo in cui l’istituzione di un Giorno del Ricordo non poteva neppure essere ancora immaginata.
I suoi interventi sul mensile dell’ANVGD
Sul primo numero, del maggio 1994, della nuova “Difesa”, a proposito dei tre anni di silenzio del giornale, così scriveva sulla prima pagina: «[…] L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia diventò muta e perse gran parte del suo peso politico presso le autorità centrali e periferiche. Ho ricevuto migliaia di lettere che rimpiangevano il giornale che […] arrivava nelle case dei profughi come una lettera […] una grande lettera tra parenti e amici che un esodo crudele ha disperso in Italia e nel mondo». E proseguiva: «È stato uno strumento indispensabile per il mio lavoro per quasi cinquant’anni. Ho riportato tutti i provvedimenti legislativi, ne ho precisato i termini di scadenza ed ho fornito le relative istruzioni. Quanti profughi hanno perso rilevanti benefici […] per non aver letto il giornale». «Per queste ragioni – spiegava nella sua nota – mi sono addossato l’onere della sede, dell’organizzazione del giornale, e, con l’aiuto di amici e della mia famiglia, l’onere finanziario dei primi numeri».
La veste tipografica del giornale, divenuto da allora mensile, era naturalmente molto semplice, in bianco e nero e di sole 8 pagine. Già su quel primo numero Padre Rocchi pubblicava un primo lungo elenco di indennizzi non riscossi per irreperibilità dei titolari o dei loro eredi, e tutte le istruzioni per presentare le domande in base alla recente (allora) legge promulgata, la n. 98 di quello stesso anno, il ’94, che riapriva i termini per la presentazione delle domande di indennizzo. Dal numero successivo, di giugno, Padre Flaminio iniziò la pubblicazione degli elenchi delle pratiche discusse nel corso delle sedute della Commissione interministeriale che avrebbe continuato a seguire sino a poco prima della suo ricovero e della sua scomparsa. E dal numero di ottobre aprì la sua rubrica «Padre Rocchi risponde», una “casella di posta” oggi diremmo, presto satura di lettere. Per tutti ha avuto una risposta, pubblica se consentito dall’argomento, privata altrimenti.
Sulle pagine di “Difesa” sono stati tanti i suoi articoli rievocativi di luoghi e personaggi, amava molto ricordare e condividere con i suoi lettori le memorie e le storie: scrivere significava per lui, senz’altro, tenere desto il rapporto umano e fraterno con gli esuli che lo avrebbero letto e significava mantenere viva, dandole voce, la dolorosa vicenda dell’esodo. L’utilità del rilancio del giornale si rivelò chiaramente con il rinnovato e ingente afflusso nella sede di Via Serra di esuli da ogni città d’Italia, di telefonate a ciclo continuo, di infinite richieste di assistenza. Di quanti chiamavano, ricordo, conosceva molti, con tanti si intratteneva simpaticamente, con qualcuno si arrabbiava anche. Già sul numero di dicembre 1994 poteva scrivere «il nostro giornale va molto bene. È richiesto in Italia, in America e in Australia: ringraziamo la simpatia e la generosità di tutti gli amici»: simpatia e generosità che si dovevano alla sua persona e dal suo assiduo lavoro. Quel lavoro che, non dimentichiamo, gli ha consentito di donare all’Associazione la Sede di Via Leopoldo Serra, la prima di proprietà, acquistata grazie alle risorse messe da parte per anni proprio nell’intento di darle una ubicazione certa e una riserva patrimoniale per ogni evenienza nel futuro.
Gli anni Novanta
Trovandomi a sfogliare, dopo molto tempo per questa circostanza, le prime annate di “Difesa” degli anni Novanta, mi sono convinta che con la sua “scommessa” Padre Rocchi possa aver consentito – o contribuito in maniera significativa – all’Associazione di “scavalcare”, per così dire, quel punto di svolta storico e politico determinato, dal 1989 e sino a tutta la metà dei Novanta, dal collasso dei regimi comunisti est-europei e dal conseguente rimescolamento degli equilibri internazionali, inclusi i sanguinosi conflitti balcanici. Non sembri una valutazione eccessiva, e comunque la propongo come riflessione: il disfacimento dei sistemi totalitari dell’Europa orientale e gli inediti scenari apertisi di conseguenza avrebbero potuto rendere la questione giuliana ereditata dal dopoguerra ancora più marginale nel sistema dei grandi e massicci cambiamenti che si andavano profilando anche nella politica interna. Rilanciando invece, mediante leggi apposite e mediante un rinnovato canale di aggregazione, l’esistenza di una considerevole comunità di cittadini italiani profughi in patria non ancora adeguatamente riconosciuti dall’opinione pubblica e dalle istituzioni, l’Associazione, certo anche con la sua rinnovata dirigenza nazionale, riuscì progressivamente a introdurre nell’inedito, nuovo corso che la politica aveva appena intrapreso anche la “questione giuliana”, con tutto ciò che ne conseguiva.
Non è certamente questa la sede per approfondire un discorso complesso che richiederebbe tempo e altri contributi, ma mi è parso giusto porre all’attenzione un passaggio che, se fu epocale per l’intero continente europeo, nondimeno avrebbe richiesto un sostanziale riposizionamento della collettività giuliano-dalmata rispetto alle nuove sfide sia in politica interna sia in un contesto internazionale di inedita complessità.
Le battaglie per i profughi. Nei Ministeri
Ho ricordato già il decennale impegno di Padre Flaminio in materia di interventi legislativi e assistenziali a favore dei profughi, ma vorrei tornarvi con alcuni dei più bei ricordi che io abbia della mia collaborazione con lui, quando dal 1998, su sua indicazione, entrai a far parte come rappresentante di categoria della Commissione interministeriale per gli indennizzi dei «beni abbandonati», insediata presso il Ministero del Tesoro (oggi dell’Economia e Finanze).
Naturalmente in quella sede Padre Rocchi guidava la delegazione dell’Associazione ed io avevo molto da apprendere, in materie peraltro a me piuttosto estranee. Mi sorprese, pur conoscendolo abbastanza, la sua capacità di correlarsi con le diverse funzioni del Ministero, di muoversi per i corridoi, le stanze, le segreterie, le direzioni, con intelligenza ed un opportuno mix di diplomazia e di fermezza. Ricordo bene la sorpresa che suscitavano, in chi non lo conosceva, le sue apparizioni al Ministero di Via XX Settembre, quando arrivava vestito del suo saio francescano per combattere le sue settimanali e vivaci, spesso molto “vivaci”, battaglie in difesa dei diritti dei profughi al tavolo della Commissione. Quanti già lo conoscevano avevano imparato come quel rispettoso e felpato frate era in realtà un combattente nato, un interlocutore tosto e autorevole, inamovibile nella tutela delle istanze degli esuli e pieno di risorse nelle argomentazioni a supporto delle ragioni dei profughi. Altra sorpresa suscitava tra l’altro il suo modo di parlare, pacato ma forbito come non ci si attenderebbe in genere dall’umile frate in saio: suscitava curiosità, ma quando aveva concluso il suo argomentare aveva già raggiunto almeno una buona metà del suo obiettivo, avendo fatto intendere al suo interlocutore – fosse un impiegato o un dirigente – che non sarebbe stato per nulla facile “liquidarlo”. In più, conosceva come nessuno la storia dell’Istria e le peculiarità della sua società agricola e imprenditoriale, cosicché riusciva difficile ai rappresentanti della pubblica amministrazione contestare le sue puntuali eccezioni e obiezioni.
Non esitava, quando la diversità di opinioni era forte e un irrisorio indennizzo veniva posto in discussione, ad alzare la voce pur sapendo di doversi mantenere all’interno delle norme che disciplinano la materia e che egli stesso, tra l’altro, per decenni ha promosso e seguito in ogni fase dei percorsi parlamentari. Non si lasciava intimidire e per questo si era guadagnato da sempre la stima dei funzionari e dei dirigenti più intelligenti, che non sono mancati.
In un solo caso, al quale assistetti, la sua presa di posizione circa una pratica controversa fu così irremovibile e “animata” nei confronti di un presidente di Commissione – peraltro un fine giurista – che ne derivò un episodio senza precedenti ancora oggi ricordato tra i funzionari. Ebbene, dopo pochi giorni quel presidente si dimise e Padre Rocchi rimase tranquillamente al suo posto: quel capitolo era chiuso, egli aveva compiuto il suo dovere, non serbava rancore personale perché tutto si svolgeva sul piano oggettivo (ma intensamente sentito) della migliore difesa delle istanze dei profughi. Le porte degli uffici e dei funzionari erano per lui sempre aperte, ma quella disponibilità se l’era dovuta conquistare a prezzo di precedenti, lunghe e umilianti anticamere, come più volte negli anni ha ricordato.
La nostalgia per i suoi luoghi
Un paragrafo a parte, per così dire, che mi pare giusto in suo ricordo qui rievocare, è costituito nella mia memoria dal racconto circostanziato e infine commosso che mi fece del suo ritorno a Neresine in occasione del cinquantenario della sua ordinazione sacerdotale, che sperava di poter celebrare nella sua chiesa unitamente al parroco croato, in comunione di fede. Il parroco croato invece non fu dello stesso avviso e, mi disse, gli avrebbe consentito al massimo di “servire” messa come un tempo i chierichetti. Al gesto di conciliazione e di umiltà offerto da Padre Flaminio il prete rispose con l’intolleranza del più greve nazionalismo, tanto più sconveniente quanto più si combina con la materia religiosa.
Fu invece pienamente con i “suoi” profughi il 10 febbraio 1997, quando a Roma, nella basilica di Santa Maria degli Angeli celebrò la funzione liturgica nel cinquantenario dell’esodo in una chiesa gremita, avendo alle sue spalle tutti i labari delle associazioni e dei liberi Comuni in esilio. Un Giorno del Ricordo ante litteram.
Ora, molti altri momenti e circostanze potrebbero aggiungersi a quanto mi è parso di poter rievocare per offrire il mio personale “ricordo” di Padre Flaminio, una figura determinante, un cardine autentico della storia dell’associazionismo giuliano-dalmata sin dall’immediato dopoguerra e per lunghi decenni. Mi accorgo, come accade in questi casi, che le testimonianze – quando se ne deve fare necessariamente una scelta – risultano in fondo sempre un po’ manchevoli, un po’ parziali, ma per restituire interamente l’immagine di Padre Flaminio ci vorrebbe un convegno.
Il suo sentimento di amore per i luoghi e le atmosfere natali, per quanto io ricordo e non dubito sia stato sempre, non si è mai spento un istante, anzi credo sia stato il motore e il conforto costanti del suo percorso esistenziale, buona parte del quale ha attraversato giocoforza ambienti lontani dalla sua vocazione, dal suo carattere, dai suoi interessi culturali. Quel nesso inscindibile e profondo con il suo paesaggio è ben testimoniato da tanti suoi testi, ma a me piace citare, fra i molti, il racconto Neresine, l’isola del vento, nel quale è riassunta con efficacia la potenza e la bellezza di un paesaggio che conforma a sé la natura degli uomini che vi nascono e nel quale tutto converge a disegnare un ambiente di singolare intensità.
«Passai […] un anno nella laguna di Venezia, nell’isola di San Francesco nel Deserto […]. Una piccola isola, immersa nel caligo. […] Sul fondo vegetavano le sogliole schiacciate, le granzievole molli, i pesci bianchi e flaccidi. Pensavo alle onde del mio mare […], agli sgombri, ai dentici […], agli scorfani rossi e ossuti per il “brudeto”, ai granchi giganti da scoglio dal colore verde bottiglia e giallo, dalle chele minacciose come due tenaglie. Neresine per un esule è un sogno, un’isola del vento che galleggia nell’azzurro del mare e nella luce del sole».
Patrizia C. Hansen
Un momento delle esequie di padre Rocchi, spirato a Roma il 9 giugno 2003 (foto Micich)