Maria Cacciola a 4 anni vide il padre per l’ultima volta. «Scrisse: “Parto per ignota destinazione”»
«L’ultima immagine che ho di mio padre è un flash dalla finestra: mia mamma mi prese in braccio e mi fece affacciare, mentre sotto casa passavano dei militari. Una sola testa si è alzata a guardare in su, era il viso di papà. Voleva così rassicurarci e dirci che sarebbe tornato presto, ma sapeva che non era vero. Eravamo a Dignano, in Istria, nel 1945, alla fine della guerra, ma per noi iniziavano i giorni più violenti, quelli in cui la gente spariva nel nulla». Maria Cacciola aveva quattro anni. Suo padre Antonino, siciliano, era stato trasferito a Dignano dove prestava servizio come carabiniere e lì Maria era nata, nel 1941.
Dal 1943 in Istria, dopo il “ribaltòn” dell’8 settembre, prima avevano imperversato i nazisti improvvisamente diventati nemici, e subito dopo i comunisti del maresciallo Tito, che rastrellarono non solo i militari italiani ma anche la popolazione civile, fatta sparire nella prima ondata di infoibamenti (la seconda e più massiccia avverrà dopo il 1945, a guerra finita, durante la Liberazione). «Mia mamma a 27 anni rimase con una bimba da crescere e un marito il cui ritorno attendevamo ogni giorno, prima a Dignano, poi in Sicilia, dove mesi dopo ci rifugiammo. Ricordo l’angoscia mai sopita di mia mamma e il dolore di mia nonna paterna, che un attimo prima di morire affidò a mia madre il compito di riferire a suo figlio, il giorno in cui sarebbe tornato, di aver chiamato il suo nome ogni momento della sua vita». Nella lontana Messina, ogni treno avrebbe potuto portare quel papà che, nella mente della bambina, era un pensiero costante. «Quante volte ho immaginato che la porta si aprisse e lui mi stringesse per non lasciarmi mai più…».
Ma il destino dei bambini istriani, fiumani e dalmati scappati con le famiglie dalle loro terre, che ormai non erano più Italia ma Jugoslavia, non era facile nemmeno nell’Italia che li accolse. Erano bambini “diversi”, parlavano in dialetto istroveneto, avevano cognomi bizzarri, risultato di quel multiculturalismo che per loro era patrimonio genetico (secoli di Venezia, ma anche Austria-Ungheria e lingue slave), ma nel resto d’Italia era ignoto. «Ricordo una maestra che, siccome ero stata discola, mi accusò di essere cattiva come mio padre che aveva “abbandonato mia madre”. L’umiliazione si aggiungeva a quella mancanza che scavava dentro di me».
Di Antonino Cacciola, padre, marito e figlio, non si poteva nemmeno elaborare il lutto, nessun funerale: gli scomparsi nel nulla non hanno una tomba e così i loro cari non si rassegnano mai, tormentati dalla speranza di un ritorno che però non avviene. L’unica traccia rimasta era un bigliettino scritto di fretta e affidato a una mano amica, con due righe da far pervenire alla moglie mentre sicuramente veniva caricato su un camion insieme a tanti altri infelici per essere scaricato in uno dei campi di concentramento del nuovo regime comunista o direttamente in Foiba: «Parto per ignota destinazione, bada alla bambina».
Maria Cacciola, ormai madre di tre figli e maestra di scuola a Messina, è partita sulle tracce di suo padre. «Nella mente portavo sempre quel parlare dolce e cantilenante della nostra Istria, ma anche i giorni felici vissuti nella casa di Dignano, con il classico pergolato e la cisterna in pietra». Ancora oggi chi visita Dignano resta impressionato dalle scritte in vernice rossa ormai sbiadita inneggianti a Tito, con cui furono imbrattate le case, presto occupate dai nuovi arrivati. E Maria nel suo primo viaggio della memoria, avvenuto nel 2008, non riconobbe nulla della “sua” Dignano lasciata a 4 anni, nessuna emozione, gente diversa, lingua incomprensibile.
E la casa? Qual era la finestra da cui aveva salutato il padre per l’ultima volta? «Il mio era un viaggio a ritroso nella fuga che avevamo fatto nell’estate del 1945 – racconta –: io e la mamma partimmo di notte su un carro e raggiugemmo Pola, che a differenza di Dignano dopo 40 giorni di occupazione titina era stata protetta sotto amministrazione anglo-americana. Poi con un carro merci arrivammo a Messina dopo 15 giorni. Non capivo perché, ma avevo perso il mio piccolo mondo meraviglioso». Per fortuna a loro fu risparmiata la pena dei campi profughi, dove gli altri esuli giuliano-dalmati furono stipati per anni in tutta Italia, e la sua giovane mamma lavorando come sarta le diede la possibilità di studiare… «Già, perché lo Stato ci mise 30 anni per riconoscere gli anni di servizio maturati come Carabiniere da papà».
Aiutata dal marito e dai figli, Maria ha cercato a lungo la verità su quel padre. A Dignano ha incontrato un italiano rimasto, che dalle antiche foto ha rintracciato la casa con il pergolato, «era in via Smareglia. Tornata lì per il secondo viaggio della memoria ho rivisto il balconcino su cui mia madre, mio padre e anch’io eravamo ritratti in tante pose, la cisterna dei miei giochi, l’antica strada romana dove passeggiavamo…».
Oggi testimonia nelle scuole e nelle cerimonie del Giorno del Ricordo, raccoglie instancabile le storie degli altri esuli giuliano-dalmati fuggiti in Sicilia (le ha riportate in Sulle ali della Memoria, Giambra Editori), colma un silenzio durato decenni sulla tragica vicenda dei nostri istriani.
Ma ancora non si dà pace: «Gli studenti mi chiedono se mi senta più siciliana o istriana – conclude –, certamente la Sicilia è la culla delle mie origini familiari, ma l’Istria è la patria del cuore». Perché sa che quella piccola penisola nell’Adriatico, della cui terra rossa conserva un vasetto che ha sigillato con il nastro tricolore, «da qualche parte custodisce le spoglie del mio amato papà». La sua tomba è l’Istria intera, «terra di polpa rossa col cielo di cobalto» come la chiama il poeta Biagio Marin.
Lucia Bellaspiga
Fonte: Avvenire – 11/02/2022