Cherso, la campanella suona alla mattina: tutti a scuola!

Siamo onorati di pubblicare un altro toccante racconto di Annamaria Zennaro Marsi. È sulla sua vita a Cherso da bambina, tra i banchi dell’asilo, i cacciabombardieri inglesi e l’istruzione nella scuola elementare, con tanto di pagella del 1946, scritta in italiano, compreso lo slogan titino: “Morte al fascismo, libertà ai popoli”. Nel meraviglioso racconto autobiografico ci sono, oltre a tanti nomi e cognomi di maestre e altri personaggi del tempo, alcune poesiole molto interessanti, in veste antropologica e vari micro-toponimi. Grazie all’Autrice e buona lettura (a cura di Elio Varutti).

Gallo galletto chicchirichì

presto bimbetto, al-za-ti,

prendi il cestino e vieni con me,

andiamo all’asilo che bello che è!

Dentro di me pensavo che proprio tanto bello non era. Il pollice della mia mano destra era pallido e raggrinzito e, nonostante il bel cestino di vimini e l’entusiasmo che ci metteva mia madre nel cantarmi la canzoncina, non riuscivo a staccarlo dalla bocca per il disagio che provavo nell’avviarmi verso l’asilo.

Percorrevo l’umida e ombrosa stradina all’interno delle mura di Cherso, stringendo la mano di mia madre, fino a raggiungere la porta Bragadina, accanto alla quale sorgeva la semplice costruzione su due piani che racchiudeva la scuola materna.

La scuola, risalente ai primi anni del secolo XX (1904), ebbe come prima maestra la signora Irma Cella, che ne divenne, in seguito, la direttrice e dipendeva allora dall’Ente stabile Italia Redenta. Era circondata da un muretto su cui si innalzava un’inferriata, interrotta davanti sul Prà, da un cancello, pure in ferro che veniva rinchiuso dopo l’ingresso di tutti i bambini.  

Ci accoglieva Fanny che, essendo molto miope, portava le lenti “con tanti giri” e che, assieme alla maestra Melania, ci aiutava a riporre sul banchetto il cestino contenente la merenda, il tovagliolo e il bavaglino, tutti diligentemente contrassegnati. Da soli spiccavamo il grembiulino appeso ad un lungo appendiabiti, identificabile dal proprio disegnino, aiutandoci a vicenda ad indossarlo e prendendo tranquillamente ciascuno il proprio posto sulla seggiolina di legno. Spesso ci assisteva anche Gioconda che aveva l’incarico di preparare i pasti e di accudire ai nostri bisogni. Chissà quanti “popocini chersini” avrà pulito nel corso degli anni!

Non mi piaceva molto il mio contrassegno e invidiavo gli altri bambini che venivano identificati con un fiore, un frutto o un animale. Io avevo un aeroplano! Oggi sarebbe magari apprezzato, ma nessuno di noi piccoli ne aveva visto uno, fino ad allora, sopra il cielo di Cherso e non immaginavo certo che, da lì a poco, ne avrei visti e soprattutto… temuti!

Eravamo negli anni 1943-1945, iniziava “il calvario di Cherso” e, per sfuggire a quel “campo di battaglia” che era diventato il Prà, ci rifugiammo, d’estate, in un ricovero per animali, nella campagna della nonna al secondo chilometro della “strada nova” in località “Gracisce”. L’aereo mi apparve all’improvviso intorno a mezzogiorno, come un uccellaccio torvo e minaccioso, cupo presagio di distruzione e di morte e, spaventata, mi appiattii sotto al “figher” [il fico, dialetto istro-veneto, NdR].

Fu l’esordio di un incubo per tutti, ma, forse, per noi piccoli spensierati e facili all’oblio, era quasi peggiore l’olio di fegato di merluzzo che ci veniva somministrato all’asilo per proteggerci dal rachitismo e per supplire ad alcune carenze vitaminiche nell’alimentazione di allora. Veniva sì accompagnato dal pane e seguito da uno zuccherino per rendercelo più appetibile, ma rimaneva il suo disgustoso reflusso e, solo una profonda convinzione ed un forte controllo, riuscivano a farcelo ingoiare.

Mi pesava pure l’imposizione di star seduta per parecchio tempo, per seguire le utili lezioni di igiene o quelle sui pericoli da evitare o sul comportamento da tenere a tavola che l’educatrice ci impartiva, indicando degli esempi illustrati su dei grandi cartelloni appoggiati alla lavagna, invitandoci poi a rispondere, tutti in coro, alle domande che ci venivano poste o facendoci ripetere delle semplici filastrocche o delle briose e piacevoli canzoncine che poi ripetevamo in casa o nei giochi in giardino.

Consumavo la merenda prelevandola dal cestino, assieme al bavaglino che i più grandicelli allacciavano ai più piccoli. Pregustavo con gioia quel momento, soprattutto quando sapevo che la nonna, per farmi contenta, aveva acquistato i deliziosi biscotti, appena sfornati, che una sorridente Chersina vendeva sul suo banchetto. Erano dei croccanti, lucidi buzulini [buzolai=pane biscottato] che emanavano un delizioso profumo di uova e di miele.

A pranzo, dopo aver apparecchiato da soli la tavola, mangiavamo delle minestre, spesso di fagioli o di piselli, talvolta anche di fave e, quasi subito dopo, dovevamo chinare il capo sulle braccia incrociate e appoggiate sul tavolino, chiudere le palpebre e cercare di dormire. Ogni tanto sbirciavo per vedere se qualcuno era sveglio, ma vedevo solo nuche, perchè tutti dovevamo tenere la testa girata dalla stessa parte. Spesso mi addormentavo profondamente fino a quando un improvviso battito di mani ci permetteva di aprire gli occhi e sollevare il capo.

Avevamo ancora un po’ di tempo a disposizione per fare dei rotolincon le serpentine colorate, con le quali, premendo delicatamente il centro verso il basso, si formavano piccole e grandi tazze, bicchieri o vasetti, rendendoli poi rigidi con della colla, spesso preparata anche con l’acqua e la farina. Erano, tutto sommato, momenti piacevoli e spensierati! Nel paese intanto si percepiva un gran trambusto. I volti degli adulti erano preoccupati e ansiosi. Alcune educatrici vennero sostituite e apparvero inaspettate anche altre rime: oltre a “Pum pum d’oro” e al”cucù” la gatta cambiò nome diventando “macka macka moja, macka macka bjela” [gatto gatto mio,  dal croato], mentre, anche tra gli adulti, imperversava il “Siri colo” (girotondo).

I bombardamenti, gli incendi, le turbolenti e tragiche vicende belliche m’impedirono una frequenza regolare all’asilo. La vita di tutti aveva subito insospettabili stravolgimenti e io pregustavo da tempo la gioia di andare finalmente nella scuola “dei grandi”.

La scuola elementare di Cherso

La scuola elementare era situata all’estremità opposta del Pra’, vicino alla porta Marcella e, dopo l’abbattimento delle mura, era molto più visibile in tutta la sua imponenza, creando, assieme al Dopolavoro, un piacevole e armonico complesso architettonico. C’ero già stata a 4 anni più volte, invitata dalla maestra di mia sorella, signorina Quirina Cella.

Entrai nell’edificio, dapprima al mattino e poi anche al pomeriggio, quando le alunne, tutte con il grembiule nero e il colletto bianco, si destreggiavano in attività di economia domestica, disegnavano, si dedicavano ai lavori manuali, ma anche a fare i compiti, a recitare e a cantare e ad allenarsi negli esercizi ginnici, nei giochi collettivi e ritmici, nei saggi con cerchi e bandierine.

Fui intimidita nel vedere l’imponente ingresso sul quale campeggiava il ritratto del re Vittorio Emanuele III, la scalinata, i lunghi corridoi, le ampie aule luminose, le ordinate file di banchi con il portapenne e il calamaio, le grandi stufe che servivano per riscaldarsi d’inverno, la cattedra sulla pedana e la grande “tavola nera” sulla parete. Con sorpresa e disappunto notai pure una lunga bacchetta di legno che serviva per indicare la lezione sulla lavagna e in certi casi, battuta sul banco, per ottenere il silenzio o addirittura, come avevo sentito sussurrare, per colpire, alternandola al righello, le mani di qualche alunno particolarmente indisciplinato.

L’elegante costruzione, a due piani, rifinita da un movimentato frontone, era stato edificata, come scuola popolare, nei primi anni del 1900 e, come tante atre scuole, era circondata da un muretto, con sovrastante inferriata, interrotto da due cancelli: quello di destra adibito all’ingresso dei maschi (sotto la scritta esterna: Vittorio Emanuele III) e quello di sinistra per le femmine (sotto la scritta: Regina Elena). Disponeva sul retro di un giardinetto, utilizzabile nelle belle giornate, per gli esercizi ginnici.

Si occupavano delle pulizie e della custodia due coniugi ai quali la fervida penna di Aldo Policeck de Pitor, poeta ed insegnante presso la scuola di Cherso fino al 1949, dedicò i seguenti versi:

JACOMO E JACOMINA DE LE SCOLE

La campanela sona de matina:

Jacomo, senza man e Jacomina

scominzia la jornada.

Che copia indovinada!

Ela come un foleto

neta tuta la scola,

scovar, lavar per tera

con quei brazi mai stanchi;

lu, cun una man sola, da drio forbir i banchi.

La scola ga brusado,

la xe andada in rovina

ma lori no ga visto:

i iera andadi avanti,

a sonarghe la campana dai angeli e dai santi !

Infatti un furioso incendio nel 1978 (circa) cancellò completamente la presenza materiale della scuola elementare, ma non la sua impronta né la sua memoria che continuano a sopravvivere indelebili nella storia di Cherso e nella memoria  dei Chersini e, anche se le pietre non possono più parlare, la sua immagine e il suo emblema sono sempre presenti nei loro cuori:

Cherso, par mi, xe ‘l viso dei amici

de scola,la maestra Margarita,

i libri soto scaio e de la vita

i primi passi.

Cherso aveva un’importante tradizione scolastica e negli anni di fine secolo XIX e inizio secolo XX vi insegnava la maestra Luisa  Moratto, di madre chersina (Scalamera, sorella di don Giorgio) che, da Buie d’Istria, luogo della sua nascita, ottenne il suo primo incarico nel 1893, proprio a Cherso. Lì si stabilì definitivamente, diventando prima la promotrice e poi la direttrice della scuola materna (1903), poi della nuova Scuola Popolare dell’Infanzia (1904) e, in seguito, insegnante di quella elementare intitolata nel 1925 “Scuola Vittorio Emanuele III”. Ci fu una cerimonia solenne e invitati illustri, durante la quale la maestra Luisa Moratto poté sfoggiare, appuntata al petto, la medaglia d’oro con l’effigie di Dante Alighieri, donatale nel 1906, dalla Lega Nazionale per i suoi meriti di educatrice.

Cherso, 1925 – Scuola elementare, premiazione della direttrice Luisa Moratto; appuntata al petto, la medaglia d’oro con l’effigie di Dante Alighieri, donatale nel 1906, dalla Lega Nazionale per i suoi meriti di educatrice. Il primo a sin. è il nonno materno di Annamaria Zennaro Marsi. Collezione dell’Autrice.

Per suo interessamento, dopo la prima guerra mondiale, negli anni 1920-1925, sorsero nell’isola gli asili di: Caisole, Orlez, Vallon, S. Martino e Bellei ai quali si unirono in seguito quelli di S. Giovanni, Dragosetti, Ossero e Ustrine.

Seguace di Maria Montessori, dotata di una forte personalità, rigorosa, ligia e severa, ma estremamente disponibile verso i bambini bisognosi, molto conosciuta ed apprezzata in campo educativo, lasciò un’indelebile impronta in quanti la conobbero e le sue alunne, oltre ad ottenere un’invidiabile preparazione, ebbero un seducente esempio e stimolo per la loro professione futura.

Nel passato più remoto i figli dei poveri erano per lo più “bocche da sfamare” e molti genitori preferivano, piuttosto che mandarli a scuola “a scaldare i banchi”, utilizzare i maschietti quale aiuto nei campi, nella pesca o a lavorare nelle fabbriche di “grossi panni, di rosolii o nei cantieri ove si racconciavano (come scrive l’autore del dizionario corografico d’Italia Amato Amati, nel 1875) le navi o si costruivano i trabaccoli in una Cherso che possedeva un gabinetto di lettura, una casa di ricovero per poveri, una scuola maggiore maschile e una scuola elementare minore femminile e in città v’erano molte persone colte”.

Le ragazze venivano indirizzate al lavoro di sartoria o di cucito e ricamo. Alcuni ragazzi consideravano la scuola una forma di prigionia e, alcuni, da ribelli, la disertavano o, addirittura, quando erano sicuri di non essere visti, nascosti dietro la porta Marcella, lanciavano con la fionda dei sassetti ai vetri delle finestre, quasi a voler eliminare e distruggere un obbligo che percepivano come tempo sprecato e infruttuoso, che richiedeva grande sacrificio e impegno e limitava oltremodo la loro connaturata libertà e una congenita propensione per i più vantaggiosi e redditizi lavori manuali.

Come si rileva dal “Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso e Ossero”, edito nel 1771, “la mancanza della scuola contribuisce a mantenere l’indocilità e fa che la cultura non vi sia molto comune”. Poi continua: “sarebbe una fortuna se l’esempio d’un sì dotto Concittadino (leggasi Francesco Patrizio) conducesse agli studi quegli isolani.  Il popolo, che v’è, pieno di superstizioni, profitterebbe della filosofia de’ pochi come si vede nelle capitali colte.” In realtà Cherso aveva una tradizione culturale di alto livello e molti studiosi si fecero conoscere anche in campo nazionale. Citerò su tutti l’abate Giovanni Moise e la sua grammatica, che il Carducci definì “la più grande grammatica italiana” usata come modello anche a Firenze, culla della lingua italiana.

E, proprio il sorgere di nuove scuole, molte ad opera della Lega Nazionale, dispensatrici di educazione e di cultura, permise di eliminare in buona parte la piaga dell’analfabetismo, maggiormente diffuso nelle famiglie più modeste e meno acculturate. Un numero sempre maggiore di giovani chersini, dopo la scuola dell’obbligo, continuarono gli studi al ginnasio “Francesco Patrizio” che sorgeva vicino alla “Peschera” (dove insegnò pure una giovanissima e ora plurilaureata Meyra Moise). Quelli che ne avevano la possibilità, proseguirono gli studi a Fiume, a Zara, a Vienna o in altre città dell’Impero o italiane.

Mi parve una conquista quando, nel 1945, ebbi l’età di entrare ufficialmente a far parte degli scolari! Possedevo un sillabario con un alfabeto mobile illustrato, un pallottoliere di legno e un quaderno a quadretti dove tracciare tante aste, filetti e cerchietti da introdurre perfettamente nei quadratini e in seguito, ogni giorno, una diversa bordurina da colorare. Non c’era più il ritratto del Re all’ingresso e le scritte sul frontone risultavano illeggibili. La mia prima maestra, la signora Antonietta Zadro era molto severa, non sorrideva quasi mai, ma io l’ammiravo molto.

Al mattino, dopo la preghiera, ci faceva stendere le braccia sul banco, con le dita delle mani allargate e girate sul dorso, per controllare che le mani e le unghie fossero pulite. Tutti temevano il rimprovero e la vergogna di venir redarguiti! Dava un’occhiata anche ai capelli, rimproverando quelle che avevano un aspetto disordinato o forse anche per individuare quelle “lenti” bianche che indicavano la presenza dei pidocchi e che, schiacciate tra le unghie dei pollici emettevano uno “s’cick” sonoro prima di venir sfilate, una alla volta, dai capelli.

Quando non si doveva scrivere, le braccia andavano tenute incrociate dietro alla schiena, mantenendo il busto e il capo ben eretti, appoggiando i piedi, spesso doloranti a causa dei geloni, sulle pedane di legno che formavano un tutt’uno con i banchi. Mi aveva insegnato a scrivere correttamente, ad amare la lettura, a fare i conti, a disegnare e avrei voluto che mi accompagnasse in tutto il percorso della scuola elementare, ma lo stravolgimento in atto continuava a procurare i suoi danni. L’esplosione, a vasto raggio di granate, alcune anche incendiarie, avevano danneggiato un’ala della scuola. C’erano schegge dappertutto. Libri, documenti, registri e oggetti scolastici erano stati ammucchiati all’aperto e, dalle piccole finestrelle ad est dello scantinato, si potevano scorgere, frammisti alle pietre e ai calcinacci, libri facenti parte della biblioteca scolastica, in parte rovinati e bagnati.

Le lezioni vennero sospese, nella scuola furono ospitati, con l’intento di dar loro maggior sicurezza, dei bambini provenienti dall’ospizio de Seppi accompagnati da suor Carla Attems e un’aula venne pure adibita al primo soccorso dei soldati feriti.

La precarietà dominava tutti gli aspetti di un paese ormai sconvolto. Alla fine della prima classe la mia pagella portava già evidenti i primi segni del cambiamento (vedi foto).

Pagella di Zennaro Anna Maria, intestata al Comitato Popolare Regionale per l’Istria

Dopo le esperienze tragiche e sconvolgenti della guerra e delle occupazioni, delle paure e delle fughe, della scarsità di cibo, delle deportazioni e delle morti, il cucchiaio d’olio era diventato un male minore, anche se sempre sgradito.

Gli anni successivi al dopoguerra furono incerti. Nella classe seconda ebbi quale insegnante la maestra Antonietta Ceglian. Imparai ad usare i pennini da inserire su una bella canna colorata, ad intingerli nell’inchiostro, ad impormi di non rovinarne la punta e di non fare delle macchie, coprendo velocemente la pagina con la carta “asciugante” prima di girarla e di non formare, con il gomito, le “orecchie” sui quaderni, mentre in terza, (anno scolastico 1947/48) sotto la guida di una giovanissima Concetta Pavan, usavo l’abaco cartonato e ingiallito di mia sorella, per ripetere e memorizzare le tabelline.

Lo svolgimento dei programmi fu alquanto precario e disordinato con conseguenze dannose sul nostro apprendimento. Ci aspettavano ancora brusche sterzate e tumultuose piroette! All’appello quotidiano dell’insegnante in classe rispondevano sempre più sconfortanti silenzi e nei lunghi corridoi, privati del loro naturale brusio, rimbombavano solo poche voci sommesse.

Cherso si stava vuotando delle sue creature, i suoi semi venivano  proiettati e sparpagliati nel mondo, le sue scuole deserte e ferite e,  con esse, smantellati il suo futuro, la sua cultura, il suo idioma e la sua identità!

Note – Autrice principale: Annamaria Zennaro Marsi. Progetto e attività di ricerca: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Copertina: cartolina di Cherso con la scuola, a sinistra e il dopolavoro ‘Francesco Patrizio’ a destra. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/

Annamaria Zennaro Marsi
Fonte: ANVGD Udine – 04/03/2022

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