Ringraziamo Annamaria Zennaro Marsi per questo pittoresco squarcio di vita quotidiana a Cherso negli anni 1930-1940. Il brano contiene oltre che degli esclusivi spunti di storia e di economia, molte affascinanti tracce di vita comunitaria. L’Autrice spiega alcuni termini dialettali in parentesi tonde. La redazione del blog per facilitare il lettore, mediante alcuni dizionari dell’idioma istro-veneto (come: Botterini, Bracco, Samani, Corso Regeni), si è permessa di spiegare in parentesi riquadrate il significato in lingua italiana di altri vocaboli del dialetto istro-dalmata. Ecco le parole di Annamaria Zennaro Marsi. (a cura di Elio Varutti)
Nuvole scure e minacciose stavano avanzando rapidamente dal mare, folate di vento sollevavano la polvere del Prà che s’infiltrava fin dentro le mura e nei clanzici (vicoli) facendo sbandare i vasi delle aspidistre che adornavano le scale fino alle baladore [poggioli, NdR]. Tutt’intorno lo sbatacchiare di scuri spalancati e un turbinio di voci concitate di Chersine che correvano frettolose. Era un inaspettato neverin (burrasca improvvisa) di primavera inoltrata che, sopraggiungendo velocemente, creava un fuggi fuggi generale.
Si coglieva nelle voci la preoccupazione per il bucato steso al sole, per le finestre lasciate aperte, per le barche mal legate agli ormeggi in purpurela (moletto a protezione dei porticcioli), per quelle in alto mare che riducevano velocemente le vele, per i bambini che si rincorrevano imprudenti lontano dai portoni delle case e, sicuramente non ultima, l’apprensione per il grisantemo, che doveva essere immediatamente protetto dalla pioggia in arrivo: “Maia moia, me se bagnarà el buhaz!” Era l’esclamazione ricorrente. (Buhàz = piretro, crisantemo. Maia mòia, me se bagnarà el buhaz! = Mamma mia, mi si bagneranno i grisantemi!).
Fin da piccola avevo notato che in Prà e in piazza, ma anche in altri luoghi di Cherso, in Fortezza, in alcune piazzette e perfino sulle rive venivano stesi, al riparo dal vento, dei grandi sacchi coperti di fiori bianchi. Agli angoli e anche al centro dei lati venivano posti dei sassi che servivano a fermare il telo in caso di vento improvviso. Vi rimanevano per parecchi giorni e, quotidianamente, più volte, venivano smossi, rigirati e arieggiati per impedire che si formasse dell’umidità o della muffa.
Il suono delle campane a mezzogiorno rammentava a tutti uno degli appuntamenti giornalieri per rimestare i fiori. Ogni sera venivano prelevati e ogni mattino riportati al loro posto. In caso di pioggia, dopo aver allontanato velocemente con il piede i sassi e, afferrato i quattro lembi del telo, si appoggiava l’involucro su una spalla, a mo’ di sacco, e lo si portava al coperto per impedire che i fiori si bagnassero. Tornato il sereno tutto ritornava come prima. Ciascuno rimetteva al suo posto i crisantemi, utilizzando gli stessi sassi per fermarlo. Non si poteva barare, né appropriarsi di spazi altrui, pena musi lunghi e sonori litigi.
In quei giorni ciascuno doveva badare anche che le galline non andassero a razzolare sopra i fiori alla ricerca di qualche semino commestibile o che qualche malignaso (dispettoso) ragazzino non sparpagliasse i fiori fuori dal telo.
Il rito si ripeteva ogni anno e permetteva alle Chersine, ma anche ai Chersini, di racimolare qualche liretta per arrotondare il magro bilancio familiare. La nonna Meniga [diminutivo di: Domenica] mi raccontava che già lei, da adolescente, con il polic sulla testa per ripararsi dal sole, andava con la sorella Maria sotto Smergo, a Grabar e in altre località collinari esposte al sole a raccogliere i grisantemi, dove i campi si ammantavano quasi miracolosamente di bianco. Visti da lontano sembravano immacolate piste da sci di un’ultima neve di primavera, ed invece, su steli lunghi ed eretti, erano sbocciate le margherite dalle candide corolle che incorniciavano un vellutato soffice bottone giallo.
Un po’ di ecologia
Si trattava di crisantemi “cinerariae folium”, una specie primaverile perenne, nel senso che dopo la semina potevano riprodursi anche per 20 anni e i cui capolini venivano polverizzati e preziosamente trasformati in un insetticida biologico: il piretro un antiparassitario naturale che, appena nel dopoguerra, sarebbe stato sostituito da prodotti chimici.
Le mamme, ma anche le nonne e le ragazzine, come richiamate da un avvenimento atteso e puntuale, portando seco dei sacchi vuoti, si incamminavano verso quelle bianche mete con il desiderio di riportare a casa un nutrito bottino di fiori. Ricordo che la mamma aveva cucito sulla parte anteriore della traversa [grembiule] una capiente tasca e, giunta a destinazione, aveva appoggiato sul terreno un grande sacco, arrotolandone la bocca verso l’esterno, in modo da inserire più fiori possibile ed in minor tempo. Era velocissima: con l’indice e il dito medio della mano formava una forcella, mentre il pollice sovrapposto all’anulare e al mignolo imponeva alla mano maggior forza nello strappo. Zac-zac, via… un fiore dopo l’altro finivano nella tascona ed era capace di usare tutte e due le mani contemporaneamente in un sincronismo ritmato e veloce e, quando la scarsela [tasca] era piena, la vuotava nella bocca larga e arrotolata del sacco.
Lo strattone, secco, avveniva verso l’alto e lo stelo rimaneva eretto, ma monco della sua corolla. Il colore bianco man mano spariva, lasciando sui campi devastati, come dopo una battaglia, il grigio cenere degli steli e delle foglie.
Pampe de fogo
Schene brustolade
Morte de bianchi fiori
Sudor amaro e canti de cicale
Sachere distirade
Oro che ’sol scurisse
e fa lesiero
le done inzenociade
se sfinisse
come per invocar
grazia divina.
Aldo Policek
Era un lavoro corale, come corali erano anche i canti che risuonavano in lontananza. Canti che erano frequenti nelle donne durante i lavori domestici, durante la vendemmia e in tutte quelle occasioni che le aiutavano ad alleviare la fatica, trasformandola in un gioco gradevole, soprattutto se garantiva anche un fruttuoso e proficuo tornaconto.
Erano instancabili quelle Chersine e dopo aver raccolto il maggior quantitativo possibile di crisantemi e, quando i sacchi erano pieni, li sollevavano sulle spalle e se ne ritornavano contente a casa, pronte a distirar (stendere) i fiori negli spazi prestabiliti. Nei giorni successivi li rigiravano più volte, per farli asciugare, ma non troppo, per non ridurre eccessivamente il peso, rischiando di far diminuire il loro guadagno.
Dopo circa 15-20 giorni di asciugatura, arrivava il giorno della consegna che avveniva in alcuni centri di raccolta. La mamma li consegnava in via Turion, a destra del Pecrìs, quella stradina che conduceva al Zimitero [Cimitero] e metteva noi bambine in fila per non perdere il posto. Non era piacevole star lì al sole e al caldo, ma soprattutto dover resistere al forte odore sgradevole che esalavano quei fiori ormai rinsecchiti, puzza che irritava la gola, che si diffondeva nei dintorni e che permaneva nelle narici per molto tempo, tanto da sentirsela addosso come se uscisse dai pori della propria pelle. Qualcuno non sapeva neanche come venissero impiegati quei capolini di piretro, ormai secchi che venivano spediti prima a Fiume con il vaporetto e poi anche a Milano, per essere macinati, polverizzati e infine venduti e usati come provvidenziale antiparassitario.
Il loro utilizzo era davvero prezioso. Infatti il piretro naturale non era dannoso per gli animali né per le persone. Eliminava solo gli insetti sui quali veniva spruzzato, lasciando integri quelli benèfici ed essendo degradabile, in due giorni esauriva automaticamente il suo effetto. Importante era utilizzarlo di sera, quando ormai il sole era al tramonto, altrimenti la troppa luce e il calore avrebbero annullato la sua efficacia. Nel luogo di raccolta, gestito dal signor Filipas, c’era una grande pesa e, man mano che i sacchi con il loro contenuto, ben fracà [pressato] venivano appoggiati e misurati, si riceveva il compenso, che era comunque sempre inferiore alle aspettative, con conseguente brontolio, rugnade [grugniti] e malcelata insoddisfazione da parte delle raccoglitrici che temevano sempre qualche irregolarità nei pesi. Anche ai fusti, assemblati in fasci e poi ridotti a pezzetti, veniva riconosciuta qualche, se pur minore, remunerazione. Nonostante il magro corrispettivo, rapportato all’impegno che richiedeva la raccolta, quasi tutti i Chersini erano pronti a sfruttare e ad usufruire in tutte le primavere successive, da maggio a metà giugno, del dono provvidenziale che il Cielo elargiva al paese.Annuncihttps://c0.pubmine.com/sf/0.0.3/html/safeframe.htmlSEGNALA QUESTO ANNUNCIOPRIVACY
La guerra interruppe questo fiorente e florido commercio e, a Cherso, la raccolta del piretro fu definitivamente abbandonata. In seguito venne introdotto il DDT, un insetticida chimico, un prodotto di sintesi molto più potente, nocivo agli animali e anche agli uomini, ma molto più comodo ed efficace che sarebbe riuscito a debellare, oltre agli insetti nocivi, i pedoci [pidocchi] così diffusi tra i soldati in guerra e sui capelli dei bambini, i pulisi [pulci] e i zimesi [cimici] che proliferavano nelle suste (reti) dei letti e, soprattutto la zanzara anofele responsabile della malaria nelle zone paludose e malsane.
Ricordo che quasi tutte le famiglie disponevano di quella pompetta cilindrica, metallica, con pistone a spinta dal pomello di legno, che faceva uscire da una scatoletta di latta il liquido insetticida, il flit.
Veniva usato quasi come un trastullo, anche con eccessiva generosità, finché anche le acque dei fiumi e dei mari vennero contaminati da quel veleno non degradabile, nocivo anche ai pesci e alle piante marine, per cui l’uso, intorno agli anni settanta, venne definitivamente proibito e sostituito da altri ritrovati chimici.
Come in tutti i corsi e ricorsi della vita e della storia, oggi si cerca di ritornare agli insetticidi naturali e i fiori del piretro vengono ancora coltivati in Australia, Tasmania, in Kenia e altri paesi africani. Il loro raccolto viene effettuato da macchine con forcelle meccaniche e non più dalle dita abili e operose delle donne, che, come le Chersine, con i movimenti cadenzati di un direttore d’orchestra, staccavano verso l’alto le bianche corolle dei fiori del piretro che adornavano, come un dono provvidenziale e prezioso, in primavera, le campagne di Cherso.
Non sentivano la fatica, né il sole che le faceva sudare, perché era troppo forte l’intento di guadagnare qualche soldino, un piccolo regalo dalla sempre perfetta, generosa e saggia natura alle interessate e sparagnine [risparmiatrici] nonne, bisnonne e trisavole, fiere ed orgogliose di poter contribuire alla magra e difficile economia familiare.
Annamaria Zennaro Marsi
Cenni biografici dell’autrice – Annamaria Zennaro Marsi è nata in Italia a Cherso, provincia di Pola, allo scoppio della Seconda guerra mondiale ed è vissuta nell’isola fino al 1948, anno dell’esodo. La provincia di Pola dal 1947 è annessa alla Jugoslavia. Dal 1991 fa parte della Repubblica di Croazia. La Zennaro Marsi ha riferito in un suo libro l’infanzia gioiosa e tormentata del periodo bellico in un luogo ricco di tradizioni e di storia. Poi è giunta al Campo profughi del Silos a Trieste. Nel 1949 è stata in esilio per quattro mesi in Danimarca, dove i bimbi dell’esodo venivano accolti e nutriti da famiglie volenterose, pur di non lasciarli nei disagevoli campi profughi.
Sposata, madre e nonna, ha dedicato la sua vita alla famiglia, alla scuola, ai viaggi e ai suoi numerosi hobby fino al pensionamento. Ha collaborato per molti anni al giornale della Comunità chersina, per proseguire con i ricordi dell’esilio e della vita al Silos, in cui è stata ospite per 6 anni: “il palazzo con l’anima di carta, cartone e legno sito in piazza Libertà a Trieste”. I box, delimitati da tavole di legno “preparati per accogliere le numerose richieste e i continui arrivi di profughi e sfollati, erano insufficienti – ha spiegato Annamaria Zennaro – per cui ci venne assegnato, provvisoriamente, uno spazio vuoto di circa 16 mq, buio, senza finestre, adiacente a quello di altre due famiglie, delimitato sul fondo da una parete e completamente aperto davanti, con la possibilità di appendere su una corda, già predisposta, delle coperte grigie per tutelare la nostra privacy”.
Il suo recente capolavoro si intitola: Vita a Palazzo Silos, edito nel 2021 da White Cocal Press, del costo di 12 euro, si trova in tutte le librerie di Trieste e dintorni, nonché online su Amazon, sia in formato cartaceo che ebook.
Nei blog dell’ANVGD di Udine abbiamo avuto il piacere di pubblicare dei suoi articoli, come: “El bisato nel pozzo. Una storia di Cherso” nel 2021 e “Il mio esodo: angoscia dell’abbandono!” nel 2022, rilanciato pure dall’ANVGD nazionale di Roma.
Biografia del poeta Aldo Policek, de Pitor (Cherso 1923 – Jesolo 1998) – Nato a Cherso nel 1923, compie gli studi magistrali all’Istituto “Scipio Slataper” di Gorizia (1934 – 1941) ottenendo il diploma di maestro elementare. Partecipa alla seconda guerra mondiale e dopo l’8 settembre 1943 combatte nelle formazioni partigiane fino al 1945. Dopo aver insegnato fino al 1949 nella scuola italiana di Cherso, deve scegliere tra la cittadinanza italiana o jugoslava. Sceglie l’Italia e la via dell’esilio. Nel 1950, passando dai campi profughi di Gorizia e Udine, arriva con la famiglia a Mestre (VE). Nei due anni di permanenza in questa città insegna ai detenuti analfabeti del locale Carcere Circondariale; nel 1953 è vincitore di concorso pubblico per un posto di insegnante elementare a ruolo presso la Scuola Elementare di Jesolo (VE), dove si trasferisce con la famiglia. Vincitore di numerosi premi di poesia ed in particolare del concorso “Dialetti da salvare” indetto dal Lions Club e dalla città di Vittorio Veneto (1985), segnalazione XI Concorso Poesia dialettale in Piazza (Muggia 1985), segnalazione alla 3^ Edizione Premio Poesia D’Annunzio (Versi sciolti) Città di Jesolo (1995), 1° Premio Concorso artistico di Poesia – Associazione Giuliani (Sidney) e due volte finalista al Premio Nazionale di poesia “Giacomo Noventa e Romano Pascutto” di Noventa di Piave.
Ha collaborato con giornali e riviste fra cui: Pagine Istriane, rivista trimestrale organo del Centro di Cultura Adriatica; L’Arena di Pola, settimanale di esuli di cui è stata ripresa la pubblicazione nel 1947 a Gorizia; Comunità Chersina, foglio trimestrale dell’Associazione “Francesco Patrizio”, con sede a Trieste; Il Gazzettino di Venezia per la terza pagina. Tutta la sua produzione in versi è stata raccolta nell’opera omnia “Le poisie in dialeto chersin de Aldo Policek de Pitor” e edita dalla Comunità Chersina, a cura di Luigi – Gigi Tomaz nel 2012. Muore a Jesolo (VE) nel 1998.
Autore principale: Annamaria Zennaro Marsi. Commenti al testo e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo e Elio Varutti. Lettori: Annalisa Vucusa (ANVGD di Udine) e Sebastiano Pio Zucchiatti. Copertina: Donne di Cherso, 1920, fotografia della Collezione di Annamaria Zennaro Marsi. Per l’opera pittorica siamo grati a Ennio Zangrando, artista di Trieste, figlio di una profuga di Pirano. Fotografie della Collezione di Annamaria Zennaro Marsi e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web: https://anvgdud.it/
Annamaria Zennaro Marsi
Fonte: ANVGD Udine – 07/05/2022
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