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Ci costrinsero a gridare «Fiume jugoslava» (Voce del Popolo 05mag13)

Il 3 maggio del 1945 i partigiani jugoslavi entrano a Fiume, liberandola dall’occupazione tedesca, alla quale è stata sottoposta dopo la capitolazione dell’Italia nella Seconda guerra mondiale (8 settembre 1943). Nei mesi che precedono l’ingresso delle truppe titine in città si sparge parecchio sangue, molto più che in tutti i sei lunghi anni del conflitto, secondo alcune interpretazioni. Ancora oggi, anche se sono passati quasi settant’anni da quelle vicende, molti fiumani che hanno vissuto quei terribili momenti preferiscono non parlarne, chiudendosi in silenzio, quasi a riccio, sintomo di una ferita emotiva e psicologica mai rimarginata.

Non è una di loro Elisabetta Jakominić, una testimone di quest’importante periodo storico, che ha deciso di condividere con noi alcuni suoi ricordi. Connazionale, nata a Fiume da genitori fiumani nel 1929, Elisabetta Jakominić, dopo essere stata segretaria all’Ospedale pediatrico di Costabella, è oggi pensionata. All’epoca dei fatti era una vivace ragazzina di 15 anni. Gli avvenimenti di quei mesi se li ricorda così: “Quel periodo era caratterizzato da un’atmosfera di grande aspettativa. I fiumani volevano la città libera dai nazisti. Tutti i giovani erano euforici in attesa della liberazione, perché non ne potevamo più della guerra e dei morti. Eravamo tutti speranzosi. Con la liberazione, i fiumani, all’inizio vedevano di buon occhio i partigiani, in quanto furono proprio loro a liberarci dall’oppressione tedesca. Poi questa situazione ha iniziato a cambiare drasticamente”.

Qual era l’atmosfera di quel periodo?

“I mesi precedenti al 3 maggio erano caratterizzati da intensi e violenti bombardamenti. Grazie alla sirena eravamo prontamente avvisati dalle possibili incursioni anglo-americane. Spesso, prima degli allarmi, vedevamo i bombardieri avvicinarsi dall’orizzonte. Ciò bastava per creare in noi il panico più generale e correvano nei rifugi. Mi ricordo che i lanci di bombe erano piuttosto frequenti e spaventosi. Soprattutto nella zona di Cantrida, dove erano ubicate le industrie. Inevitabilmente le bombe colpivano anche il centro cittadino provocando tante vittime. Capitava spesso che dopo gli attacchi, appena l’allarme cessava, noi ragazzini rimanevamo per le strade a giocare, anche per allontanarci, in qualche modo, dagli orrori della guerra. La distrazione grazie al gioco, in questa cornice tragica, mi ha accompagnato lungo tutti gli anni del conflitto, sia con i fascisti e nazisti, sia con i partigiani. Era un modo, di noi ragazzini, per scappare dagli orrori della guerra”.

Che ricordo conserva del primo partigiano che vide?

“Mi ricordo di non aver reagito con tanto stupore. Anzi, ero solamente incuriosita nello stesso identico modo di quando vidi per la prima volta un soldato tedesco che pattugliava con un mitra. In realtà i partigiani, agli occhi dei ragazzini, facevano un po’ di paura, anche perché erano vestiti malamente ed erano fisicamente malandati. Erano noti anche per il fatto di reclutare con forza i cittadini, e chi si rifiutava di farlo, veniva freddato con un colpo di pistola sul posto. Tanto bastava a noi piccoli per osservarli, con timore, da lontano”.

Nelle settimane successive al 3 maggio ci furono diverse morti silenziose, soprattutto tra le file degli autonomisti.

“Si parlava di tante persone uccise o semplicemente fatte sparire. Alcune assassinate addirittura da gente del posto. Tra le morti silenziose di cui ricordo il grande vociferare, ci fu quella dell’autonomista fiumano Giuseppe Sincich ucciso dall’Ozna. Io, da ragazzina, non ho mai visto direttamente queste tragedie. Ne ho sentito parlare solamente nei discorsi di persone più vecchie di me”.

Come si comportava la popolazione?

“Alcune settimane antecedenti a maggio, i tedeschi che già si preparavano a lasciare la città, avevano fatto brillare il porto operativo di Fiume, rendendolo inutilizzabile all’approdo. Ciò nonostante la vita continuava con le nostre usanze, tradizioni e costumi che lentamente, ma inesorabilmente sparivano in quanto la nostra gente se ne andava via. A tutto ciò era subentrata una paura per ciò che sarebbe accaduto nel futuro e le avversioni per il nuovo regime e le sue regole. A guerra oramai conclusa, noi giovani spesso eravamo letteralmente presi per dei comizi in cui dovevamo gridare e dimostrare il nostro sentimento per i nuovi governanti. Ciò accadde anche in occasione della visita della commissione inglese a Fiume, il cui compito era rilevare quale lingua fosse parlata in città. In realtà era tutta una messa in scena, perché era già deciso che Fiume avrebbe fatto parte della Jugoslavia. Con dei camion ci portarono in centro e ci venne imposto di gridare ‘Fiume jugoslava’. Io, ovviamente, non gridavo. An
che perché, data la mia giovane età, ero piuttosto confusa. I partigiani, indubbiamente ci avevano liberato dai nazisti, ma man mano tra la popolazione della città cresceva l’astio nei confronti dei nuovi arrivati. Questi e altri fattori hanno inciso sulla scelta di buona parte della popolazione di intraprendere la via dell’esodo”.

Ricorda anche il giorno in cui venne abolito il bilinguismo?

“Certamente, correva l’anno 1952. È stato un grande colpo per noi fiumani. Da quel momento in poi siamo diventati consapevoli che le cose sarebbero andate in un verso diverso da quello che ci aspettavamo. Molti fiumani si resero conto che o si adattavano alla nuova situazione oppure se ne andavano via”.

Gianfranco Miksa
“la Voce del Popolo” 5 maggio 2013

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