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Come i Veneti diventano Mletaki (Rinascita 09 nov)

di Gianna Duda Marinelli

La storiografia riduttiva politicamente confusa che si interessa dei territori un tempo dell’Impero Austriaco cui nel 1815 erano stati annessi anche quelli da Mar della defunta Repubblica di Venezia, oggi mostra alcuni deboli segnali di rinnovamento, forse di verità, senza per altro far trapelare lo scopo e la meta che le è stata prefissata.

I passi si susseguono incerti mossi su di un terreno paludoso, di essi vengono proposti alcuni esempi apparentemente estranei gli uni agli altri in quanto toccano luoghi e momenti diversi.

E’ trascorsa più di una settimana da quando La7 ha trasmesso un film del  2001 realizzato in coproduzione Ungheria – Usa ed intitolato “In fuga per la libertà” (An American Rhapsody), diretto da Eva Gárdos. L’azione si svolge tra il 1950 ed il 1960 e si ispira a fatti realmente accaduti, i luoghi in cui è ambientata sono l’ Ungheria e gli Stati Uniti. I protagonisti sono cinque adulti e due bambine appartenenti a gruppi famigliari divisi dagli eventi.

Suzanne è la figura centrale ed è interpretata da Scarlett Johansson affiancata da Nastassja Kinski e Raffaella Bánsági. Purtroppo la regista non è riuscita a coinvolgere emotivamente lo spettatore appiattendo anche le sequenze più drammatiche. La pellicola si riscatta per un momento quando la mamma di Margit racconta a Suzanne come era stato ucciso il proprio padre per averla difesa da un russo ubriaco che le aveva fatto delle avances molto pesanti. Il copione sembra condizionato, vuol dire e non dire e sfiora appena i fatti che precedono il 1960, cioè quelli della fallita insurrezione Ungherese del 1956 che nel momento in cui si svolgono i fatti sembravano conclusi.

Dalla fine della Prima guerra mondiale l’Ungheria era in ginocchio, la sua gente avvilita, il territorio monco per la perdita di intere regioni, aveva avuto un momentaneo tragico risveglio durante la Seconda guerra mondiale con le disastrose conseguenze che ne sono derivate. Con l’armistizio di Mosca del 21 marzo 1945 l’Ungheria diventa una nazione dalla classica fisionomia comunista. Gli Ungheresi non si piegano, lo dimostrano i risultati delle elezioni del 1947 infatti i seggi assegnati ai partiti sono stati: 245 ai piccoli proprietari, 69 ai socialisti, 23 ai nazional contadini, 2 ai democratici, i comunisti ne ottengono solo 70. Per vincere le elezioni, i così detti bolscevichi devono assolutamente presentare una lista unica così nella tornata elettorale del 15 maggio 1949, solo così può venire formato il governo comunista guidato da M. Rácosi. Trascorsi alcuni anni, nel luglio del 1956 i cittadini della capitale si sollevano e resistono fino ad ottobre, chiedono ripetutamente aiuto ma il mondo rimane sordo. Sedati i moti, l’ONU conterà 100.000 feriti solo nella città di Budapest e nei suoi dintorni, 25.000 morti Ungheresi e 7.000 Russi. Alla fine di dicembre dello stesso anno può venire posto alla guida della nazione il comunista Kádár.

L’azione del film inizia a Budapest proprio dopo l’insediamento di M. Rácosi. Allora, le leggi sulla socializzazione venivano applicate già da anni, anche la villa ed i beni di famiglia dei coniugi Peter e Margit vengono confiscati. Ai genitori di Maria e Suzanne non rimane che l’espatrio. La nonna materna rimane in Ungheria con la nipotina Susi o Susily, troppo piccola per affrontare le incognite cui andavano incontro i genitori. Mentre i tre fuggiaschi, dopo molte peripezie si stabiliscono a Los Angeles, la bimba rimasta a Budapest viene affidata ad una coppia di coniugi che abitano in una confortevole casa di campagna dove Suzanne vive parecchi anni attorniata dal loro affetto. Dopo sei anni, la piccola raggiunge Peter e Margit negli Stati Uniti. Susi ormai adulta vuole ritornare in Ungheria, ha nostalgia della nonna e dei genitori addottivi. A Budapest avrà un breve incontro con la nonna e sarà felice di rivedere i genitori che non vivono più in campagna perché il regime ha confiscato la loro casa ed il podere. In Ungheria le vita trascorre in modo molto diverso dagli Stati Uniti e Susi ne è molto colpita. Ritornerà a Los Angeles molto triste per non essere riuscita a comprendere come i suoi cari si siano adattati ad un tipo di vita in cui la collettività annienta l’individuo. L’anziana nonna è riuscita a difendersi alzando un muro invalicabile per non vedere il grigiore del presente, il suo comportamento rincuora la nipote certa che riuscirà a sopravvivere protetta dai suoi ricordi. Susi è invece visibilmente preoccupata per i genitori adottivi che strappati dal loro habitat, privati della casa e della terra, ristretti in un triste appartamentino della capitale, non hanno le risorse psicologiche necessarie per sopravvivere. Il regime ha vinto, i tre rimasti sono senza volontà, si adattano, non possono cambiare e non sono in grado di progettare nulla.

Susi dedica il film “A mia madre e a mio padre”, in queste parole sono forse compresi anche i genitori adottivi rimasti. Infine in dissolvenza, una voce fuori campo “Quello che siamo lo dobbiamo al nostro passato”, poi si può immaginare che le bobine siano state riposte  in uno scafale, in attesa di essere rispolverate. Dal 2001 sono trascorsi nove anni durante i quali, fatta eccezione di alcune flebili voci rimaste inascoltate, la situazione è rimasta immobile, ora inaspettatamente si vuole vedere delle immagini del passato, così ritornando in dietro di 60 anni i fatti vengono osservati da un nuovo punto di vista.

Lasciando in dietro l’Ungheria, non sembra fuori luogo considerare altri territori con storie completamente diverse ma accomunati dall’aver fatto parte dell’Impero Asburgico fino al 1918. E’ il caso dell’Istria e della Dalmazia che con l’Ungheria, dissoltosi l’Impero erano riuscite a raggiungere una certa solidità territoriale, ciò che non era gradito ad una certa politica. L’occasione di sconvolgere il territorio ed il tessuto umano è stato realizzato negli anni successivi al 1945.

L’invidia e la tracotanza piantate da agronomi sapienti, hanno attecchito e dato buoni frutti. Oggi si può dire, c’era una volta l’Istria e la Dalmazia, la barbara prepotenza figlia dell’ignoranza ha causato la cancellazione delle tradizioni, della geografia, della storia, della cultura, della sua gente. Di tutto quanto c’era, oggi è rimasta la terra sterile che attende inutilmente il ritorno dei suoi figli impediti dalla famelica politica del denaro, droga necessaria per appagare per pochi istanti la sete di alcuni. L’applicazione di un codice deviato in cui l’esaltazione del falso ed il furto legalizzato, sono i capitoli fondamentali che all’inizio è stato la scintilla che ha dato l’avvio a quel motore che con le successive modifiche, ha conservato fino ad oggi la capacità di fare un ottimo servizio. Decaduto l’alibi ipocrita individuato nel promettere al popolo un benessere uguale per tutti da raggiungere a qualsiasi costo, dopo essersi liberati dei borghesi, degli intellettuali e dei non allineati con i dettami del socialismo reale, è seguito l’inappagato appetito che ha fatto aumentare a dismisura la bulimia di certi gruppi avviandoli verso i seggi più prestigiosi della finanza sostenitrice della politica dell’appena nato Stato unito balcanico.

Dopo la colpevolizzazione ed il negazionismo ecco uno scrittore coraggioso, Saša Radović, che ha pubblicato a Fiume (Rijeka) un volume in lingua croata intitolato “Histria terra nigra – Vratite Opliačkano” (“Istria terra nera – Restituite quanto avete rubato”). Per l’autore, l’Istria del 2010 può essere rappresenta solo dal colore nero. Il nero è un non colore che induce a molte ipotesi, tra esse la denuncia nei confronti di chi governa la regione. Nel volume non viene sottolineato se esiste anche il rimpianto per quei figli che non ispirati dal calcolo proletario hanno intrapreso la via dell’esilio rimanendo Italiani.

E’ quasi certo che con quel “Restituite quanto avete rubato” posto in copertina, l’autore abbia voluto alludere alla volatilizzazione del denaro pubblico e quello delle Banche ad opera dei Bankester. Non si comprende se nella richiesta di restituzione siano comprese le proprietà lasciate in mano a chi si è impadronito dell’Istria che oggi non dovrebbe esistere più. Il colore nero non si addice proprio alla luminosità dell’Istria che la natura secondo i colori della sua terra ha voluto distinguere in “bianca rossa e gialla”. Il titolo “Apokalipsa” dato alla collana della quale il volume di S. Radović è il terzo, indica il caos verso cui si avvia la Regione. All’interno un’inquietante indicazione, “Fondi neri in Istria” (Crni kapital u Istri), si tratta di un’evidente allusione alla allegre transazioni che stanno avvenendo.

Nella sua prefazione Ivan Pauletta, ex deputato della Dieta Democratica Istriana al Sabor (Parlamento croato) aggiunge che l’Istria era “romantica, magica, nobilissima”, oggi questi aggettivi sono agli “antipodi” perciò, definirla solo “nigra” è troppo poco bisogna trovare qualche cosa di molto più forte. Più avanti l’autore cita i nomignoli “capo di tutti capi” e “Nino Putin” con cui viene chiamato Ivan Jakovćić, zupan (governatore) dell’Istria. Dal 1991 è Presidente del movimento regionale Istriano, strano perchè dopo la democratizzazione della Repubblica di Croazia bisognava attendere la Dichiarazione di Rovigno del 23 aprile 1994 perché nascesse ufficialmente il partito croato IDS – DDI (Istarski Demokratski Sabor -Dieta Democratica Istriana). I. Jakovćić è figlio di un comunista internazionalista contrario al comunismo nazionalista di Tito perciò ra stato condannato ai lavori forzati da scontare sull’isola Calva (Goli Otok). Dopo la dissoluzione della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia e la nascita della Repubblica indipendente di Croazia, I. Jakovćić è sostenuto dal Presidente F. Tuđiman poi dai Presidenti che gli sono succeduti, così può continuare ad essere l’inamovibile Governatore dell’Istria.

In attesa di una reale democratizzazione della DDI (Dieta Democratica Istriana) – IDS (Parlamento Democratico Istriano) questa si è avvicinata all’ HDZ [(Hrvaska Demokratska Zajednica) Dieta democratica Croata] il partito nazionalcomunista fondato nel 1990 da F. Tuđiman.

Un consiglio agli Italiani, per risolvere l’incognita degli ipotetici rapporti presenti e futuri con l’Istria e la Dalmazia ed essere in grado di valutare il loro spessore e la sincerità non devono essere costruiti su fondamenta costituite da effluvi di contributi.

Per non chiudersi a riccio è consigliabile confrontare e distinguere i sentimenti sinceri dagli inevitabili ipocriti degli Istriani figli e nipoti di coloro che hanno deciso di rimanere per diventare cittadini di nazionalità Jugoslava nei confronti dei discendenti dei pochi borghesi ed intellettuali e dei molti Istriani di ogni estrazione sociale che hanno abbandonato la penisola per rimanere Italiani.

Come si potranno allacciare dei rapporti mai prima esistiti tra Istriani, Croati e Sloveni con gli Italiani con i quali vanno annoverati quelli che ora sono Argentini, Brasiliani, Centro Americani, Statunitensi, Canadesi, Australiani ecc. Si dovrebbero superare degli enormi blocchi di frangiflutti posti dall’uomo, per la parte Italiana è la diffidenza nata dalla dolorosa esperienza vissuta e per quella della vicina Istria, l’esasperato nazionalismo socialista e l’odio cieco per l’Italiano = fascista, la Chiesa Cattolica Nazionale Croata agli antipodi di quella ecumenica professata in Occidente, il diritto civile e penale che cancellando di fatto il Diritto Romano riducendolo ad una materia facoltativa su cui si fonda la giurisprudenza occidentale è fuso con le regole di un partito politico. Il primo nasce con il Comunismo che ha causato l’Esodo della popolazione dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (350.000 cittadini Italiani) ed il terzo ne è una conseguenza. La seconda è la muraglia invalicabile costruita dalla Chiesa Cattolica Nazionale Croata per fronteggiare gli Ortodossi. A questo proposito, sarebbe chiarificatrice, una visita a Roma in via Tomacelli 132 angolo Ripetta. Qui il “Collegio Illirico di San Girolamo” custode di un importante archivio che raccoglie i registri in lingua Latina ed Italiana che ricordano le sue attività e le spese sostenute per abbellire il complesso. Va ricordato un quadro del 1565 raffigurante un San Girolamo scomparso da parecchi decenni. Dal 1901 l’istituzione, precorrendo i tempi ha cambiato nazionalità operando come “Pontificio Collegio Croato di San Girolamo” che tra le chiese rettorie di Roma è enumerata come “Chiesa Croata di San Girolamo”. Non occorrono commenti è sufficiente citare i nomi dei suoi 46 Titolari che iniziando da Prospero Santa Croce (1566 – 1570) tra i quali troviamo l’Ungherese Péter Pázmány (1632 – 1637) e Leopold Karl von Kollonitsch (1689 – 1707) ed altri tre tedeschi, perché inizi finalmente la serie dei Titolari Croati, Franjo Kuhgaric (1983 – 2002) e Josip Bozanic (2003).

I Croati si distinguono perché hanno delle usanze dissimili agli altri popoli Europei, essi non impongono il nuovo che in realtà non possiedono, si appropriano di quanto trovano sul territorio. Riportando la traduzione di un detto ripetuto in dialetto istro/slavo, “Non date ospitalità a quelli che vengono da est che vi manderanno fuori di casa” Accolti in un territorio non si limitano a modificare, i toponimi secondo le proprie esigenze linguistiche ma li sostituiscono con nuovi che solitamente sottolineano delle caratteristiche negative.

Premesso che i Santi non hanno nazionalità ma dal momento che assurgono ufficialmente agli onori degli altari sono di tutti i Cristiani, essi sono maggiormente venerati nei luoghi dove hanno operato miracoli.

I Croati si distinguono anche in questo e tra i Santi della Nazione Croata sono annoverati alcuni vissuti quando l’Impero Romano era ancora integro. Come esempio troviamo, S. Quirino di Siscia martire all’epoca di Diocleziano menzionato nel 309 da S. Eusebio di Cesarea, San Saba il Goto martire (334 – 372), S. Marino d’Arbe, S. Girolamo (Stridone 347 – Betlemme 420). Al di fuori dei Santi, anche teologi, pensatori ed altri sono diventati Croati.

Nell’ambito delle inspiegabili modifiche, mai accettate dalla “cultura”, sempre contestate dalla gente comune, si devono considerare anche degli esempi riguardanti i toponimi.

Per primo viene considerato il caso della Repubblica marinara di Ragusa di Dalmazia, inspiegabilmente diventata Dubrovnik, toponimo che ricorda un ipotetico querceto o un “dubrava f. = bosco”.

Secondo quanto propongono all’unisono i dizionari della lingua Croata, Venezia, fino a prova contraria città Italiana, in lingua Croata diventa Mleci. A questo punto l’enigma si complica e allarma. Il cittadino del capoluogo lagunare è un “mletački = veneziano” e la “Repubblica di Venezia = Mletačka Republika (Republika Sv. Marka)”. Benché i sostantivi Mleci e Dubrovnik in un primo momento non ricordino qualche cosa di particolare, più esplicativo è l’aggettivo “mlecak = floscio, molle (detto di panno)” che allarma perché ricorda le moleche o moeche, piccoli granchi che nel mese di aprile mutano la casca che serviti fritti sono molto apprezzati dai Veneziani. Ecco il motivo perché i Croati chiamano Venezia, Mleci. I Veneziani sono dei magna moeche, perciò mollicci o meglio, privi di spina dorsale. La gloriosa Repubblica di San Marco è quindi abitata da smidollati. A dir poco ciò è offensivo. (M. DEANOVIĆ – J. JERNEJ, Vocabolario Croato – Italiano, Zagabria 1996, p. 408).

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