di FULVIO MOLINARI
Per chi va per mare, da sempre, i protagonisti sono i venti. Lo sono adesso, che barche a vela e motoscafi possono anche affidarsi a motori potenti e sicuri, ma lo erano ancor di più un tempo, in cui si poteva navigare solo a vela, e accostare alle banchine dei porti a remi. Una preziosa documentazione su come si navigava in Adriatico è stata raccolta dalla studiosa Diana De Rosa, che nel volume “Il meridiano di Vienna. I giornali di navigazione degli allievi della scuola nautica di Trieste 1763-1786” trascrive i diari di bordo dei ragazzi che desideravano conseguire quella che oggi chiameremmo la “patente nautica”, e che terminata la scuola matematico-nautica dovevano navigare per almeno tre anni su vascelli mercantili, e presentare una dettagliata relazione dei loro viaggi alla Cesarea Intendenza commerciale di Trieste diretta dal gesuita padre Orlando.
Andare a vela, nella seconda metà del settecento, era mestiere difficile. Le navi non avevano la possibilità di andare controvento ( di bolina),e procedevano di poppa o al massimo al traverso: scendevano quindi l’Adriatico con bora, tramontana o maestrale, e lo risalivano con scirocco o libeccio, spostandosi continuamente dalla costa italiana a quella dalmata in cerca di porti o ridossi quando il cattivo tempo imperversava, o in attesa che gli interminabili giorni di bonaccia fossero interrotti da un alito di vento adatto a spingere la nave lungo la rotta voluta. “I diari di bordo degli allievi – annota la De Rosa – testimoniano anche della pericolosità del navigare in acque infestate da pirati e corsari, e rimandano, con i molti giorni passati in contumacia, alle epidemie di peste che colpivano soprattutto le coste africane e i paesi dell’Impero ottomano”.
Si rintracciano, nei diari di bordo degli allievi, notizie sui carichi di mercanzie che venivano trasportati da un porto all’altro, sugli assalti dei pirati ( albanesi, libici, italiani comandati quasi sempre da capitani inglesi) , ma soprattutto racconti di navigazioni interminabili. Per andare da Trieste e Genova l’allievo Filippo Tomicich impiegò sette mesi. Da Porto Re a Barletta l’allievo Giacomo Uroda ci mise quasi tre mesi, mentre per raggiungere Barletta ( a caricare sale) partendo da Segna impiegò sei mesi. Antonio Craglich sulla rotta Trieste- Livorno e ritorno impiegò dodici mesi, mentre Nicolò Bastanzi, partito da Trieste, per toccare Malta navigò tre mesi.
Ma lo storie che più colpiscono, pur se riferite in un linguaggio per dir così burocratico, sono quelle relative alle tempeste e agli immancabili naufragi. Il 27 luglio del 1765 il bastimento Pandora aveva urtato contro una secca vicino a Capo Cesto. Il capitano e l’equipaggio avevano cercato di salvare parte del carico, collocandolo su uno scoglio nella speranza di recuperarlo in seguito, ma lo scirocco era incattivito, e aveva spazzato via con la nave anche il carico messo in salvo. Lo stesso colpo di scirocco aveva sbattuto sugli scogli dell’isola di Arbe una polacca francese carica di frutta e altri generi alimentari appartenenti a ditte triestine. Ma il naufragio che più aveva colpito la gente di mare era stato quello della nave Errico, dove arano morti quaranta marinai. Il proprietario dell’Errico, tale Federico Weittenhill, aveva chiesto, partendo da Trieste, la scorta della fregata Toscana, per proteggere la nave e il suo carico di legname, diretto a Cadice. Il primo rapporto sulla tragedia dell’Errico è firmato dal capitano conte Zorzi Ivanovich, nativo di Dobrota, giunto a Trieste con una tartana battente bandiera veneta e 19 uomini di equipaggio, recante il nome di Ssmo Crocefisso e la Madonna del Rosario ( tutte le imbarcazioni, a quel tempo, avevano almeno due nomi di santi protettori) con un carico di 1644 balle di tabacco.. Egli riferì alle autorità portuali di aver visto su una secca fuori del porto di Durazzo i resti dell’Errico, e di aver saputo che dell’equipaggio di 60 o 62 uomini solo 14 si fossero salvati.
Il racconto del capitano Ivanovich è completato da un documento scritto da uno dei superstiti, Francesco Sirola di Fiume, che consegnò il suo diario al console di Smirne. Il 3 febbraio del 1765, raccontò Sirola, navigavamo tutto il giorno con vento di scirocco, e giunti nei pressi della costa la fregata Toscana segnalò sia con lumi che con un colpo di cannone di virare di bordo. La fregata riuscì a dare fondo nel golfo di Sasino ( Saseno), e il capitano dell’Errico, non essendo pratico del luogo, chiese alla ciurma se ci fosse qualcuno che già era stato in quel porto. Si fecero avanti tre marinai, Nicolò Costa, Martin Tertinich e Tono Dragolevich, che assicurarono di poter navigare in quel tratto di mare infestato da secche e scogli anche di notte. Il comandante si affidò alle loro indicazioni, ma all’una di notte la nave sbattè contro una secca e perse il timone, mentre la sentina si riempiva di acqua.. La situazione era disperata, il nocchiero cercava di persuadere il capitano ad arenare la nave per salvare la gente e le merci, ma il pilota si opponeva e dava ordine di serrare le vele e di dare fondo buttando a mare casse e mercanzia, ma l’acqua continuava a entrare. Perduta ogni speranza veniva deciso di mettere in mare la lancia piccola, ma questa si rompeva e andava a fondo; allora veniva messa in mare la barca con venti marinai perché se la nave fosse andata a fondo potessero recuperare gli altri “e nel mentre che chiamassimo la barcaza accio s’accostasse per imbarcare l’altra gente la nave inaspettatamente si ribaltò alla sinistra. I poveri marinai chiamando Iddio per ajuto saltarono in acqua, chi di sopra le sartie e vedendo quelli della barcaza un così grande spettacolo tagliarono il cavo atteso che era legato nella puppa della nave e si diedero a recuperare nel mare, ma non potendo resistere alla fierezza delle onde furono necessitati andare secondo mare e vento, e giunti sopra il primo banco s’empì la barcaza e con il secondo colpo di mare si annegò e così a nuoto con grande tempesta e non potendo vedere la terra essendo notte non si sono salvati che dieci:”
Ai tempi del naufragio dell’Errico Trieste stava diventando un porto importante, quale sbocco al mare dell’impero austro ungarico. Il Canale di Ponterosso ( Canal Grande) ora in gran parte interrato, arrivava alla scalinata dell’attuale tempio di Sant’Antonio, mentre un altro Canale si insinuava nell’attuale Piazza della Borsa, ed era tutto un brulicare di marciliane, polacche, tartane, checchie, sciabecchi, trabaccoli, fregate e vascelli veneziani, ragusei, napoletani, turchi, barbareschi, inglesi e francesi. Da Trieste partivano merci prodotte in Germania, Slesia, Boemia come acciai, chiodami, tele, chincaglierie, vetri da finestre, cristalli e vasellame, e arrivava sale da Barletta, olii, mandorle sgusciate e pistacchi da Pantelleria, zibibbo e passoline da Lipari, tessuti, pepe, piombo, pesci salati come aringhe e baccalà dall’Inghilterra e dall’Olanda.Ad esaminare nel dettaglio i traffici che ancora toccano il porto di Trieste non è difficile ritrovare le tracce degli scambi commerciali di un tempo, e leggere, nella tradizione marinara della città, il rapporto antico di Trieste con il mare. Forse anche per questo su dieci imbarcazioni che solcano il golfo solo due sono a motore, mentre negli altri porti italiani la percentuale è completamente rovesciata. Con il mare e il vento in questo angolo della vecchia Europa esiste ancora un rapporto elettivo? Così sembra.