Nel suo articolo apparso sul “Piccolo” di qualche giorno fa, Boris Pahor afferma cose sulle quali è doveroso soffermarsi. Scopo del suo intervento è stato quello di lamentare in toni accorati una sistematica mancanza di riflessione e di elaborazione, nella cultura e più in generale nell’opinione pubblica italiana, delle sofferenze patite dagli sloveni in Italia dopo la Prima guerra mondiale a causa delle politiche di snazionalizzazione messe in atto dal fascismo.
Così dicendo, Pahor ha puntato il dito su un effettivo nervo scoperto. L’integrazione di questa tematica nell’orizzonte storiografico e nella coscienza diffusa del Paese è stata faticosa e ha richiesto un lungo percorso di approfondimento, di attenzione, di studi.
Ma fortunatamente, malgrado l’opinione di Pahor e di altri, questo percorso oggi si può dire in gran parte compiuto. Dai pionieristici lavori di un maestro quale Elio Apih ancora negli anni Sessanta, alla vera e propria impennata da circa un ventennio a questa parte nell’impegno storiografico sul problema del “fascismo di confine”, le responsabilità dell’Italia fascista nell’aver conculcato i più elementari diritti ai concittadini sloveni e croati risultano patrimonio acquisito della storiografia nazionale.
E anche sul piano dell’opinione pubblica è difficile negare che i passi avanti siano stati molti e significativi. Una positiva dimostrazione è la crescente sensibilità del mondo dell’editoria e dei media italiani verso la cultura slovena, una sensibilità manifestatasi tra l’altro proprio nella calorosa accoglienza riservata ai libri di Pahor e di altri importanti autori sloveni.
È stata una presa di coscienza collettiva, tarda ma sempre più estesa, che negli ultimi anni ha abbracciato, a veder bene, il complesso delle vicende dell’Adriatico nordorientale del secolo scorso. Nello specifico, tra i temi ormai divenuti di larga diffusione non compaiono soltanto i crimini compiuti dal fascismo contro gli sloveni prima e dopo l’invasione della Jugoslavia, ma anche altre pagine capitali del Novecento giuliano sulle quali ha pesato a lungo una cappa altrettanto pesante di silenzio e ignoranza. Al riguardo, si pensi al processo di espulsione forzata innescato dal potere comunista jugoslavo nel dopoguerra contro la popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Un processo che rappresenta il capitolo finale dei nazionalismi e dei conflitti interetnici in queste regioni di frontiera, e che ha deformato in maniera irreparabile la loro storica conformazione multinazionale.
Appena nel 2004 le istituzioni della Repubblica hanno dato dignità e veste ufficiale alla memoria di tutte queste drammatiche esperienze. A questo, a una memoria integrale dei fatti accaduti al confine orientale, è servito e deve continuare a servire il Giorno del Ricordo, come recitano le righe iniziali della legge istitutiva e come ha esplicitamente indicato il presidente Giorgio Napolitano in occasione dell’ultima celebrazione del 10 febbraio.
Perché solo in questo modo, abbandonando definitivamente gli schemi interpretativi del passato e tenendo ferme davanti ai nostri occhi la complessità e le diverse articolazioni del problema, riusciamo a dare una spiegazione alle sofferenze e alle ingiustizie subite da tutte le parti.
Innanzitutto, se vogliamo comprendere a fondo la storia delle nostre terre, non ci si può affidare ancora oggi al semplicistico meccanismo di azione (da condannare) e di reazione (da giustificare). È un meccanismo che non ha mai risolto niente, perché una lettura interessata può trovare sempre un’azione precedente su cui addossare la colpa di aver innescato la spirale delle sopraffazioni. Non a caso è stato un meccanismo utilizzato spessissimo nella retorica dei nazionalismi e di una sinistra aderente alle ragioni dell’antifascismo nazionalista sloveno.
In secondo luogo, siamo ormai in grado di capire che la dimensione del conflitto nazionale in tutta l’area dell’Adriatico orientale trascende i limiti di una circoscritta contesa tra Italia e Jugoslavia, perché rispecchia il dramma vissuto nel Novecento in tante parti d’Europa, specie quella centrorientale.
Si è trattato di un dramma in cui le snazionalizzazioni violente e le espulsioni forzate di intere popolazioni hanno rappresentato un capitolo dolorosamente ripetuto, e hanno visto quali protagonisti i nazionalismi e i totalitarismi di numerose realtà statali-nazionali. Questo ha fatto l’Italia fascista nei confronti degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia; questo ha fatto la Jugoslavia monarchica e poi quella nazional-comunista contro gli italiani della costa orientale dell’Adriatico.
Da ambo le parti, sono state politiche costanti e di lungo periodo, impossibili da liquidare in una riga frettolosa come era abitudine fare nelle polemiche politiche fino a tempi recenti, e come ha fatto Pahor in riferimento all’esodo degli italiani dalla zona B. Una sola riga dedicata al (testuale) “abbandono” dell’Istria, come se fosse stato un atto quasi volontario compiuto da gente considerata senza legami storici con una terra appartenente al popolo sloveno per un preteso diritto etnico, immigrati recenti, o “occupatori”, comunque intrusi.
Ma dal Novecento, dalle sue tragedie e dalle sue letture tendenziose e ideologiche, per fortuna siamo usciti. Ora possiamo guardare con consapevolezza e con rispetto all’intero scenario dei terribili risultati che la storia del secolo scorso ha prodotto qui. E sarebbe ora di farlo, rinunciando definitivamente a ogni interpretazione unilaterale, quando non faziosa.
Tutto ciò non costituisce lo stanco proseguimento di una diatriba di tanti anni fa, né una questione riguardante pochi accademici e qualche sempre più sparuto gruppo di reduci. Ma riguarda il futuro, il tessuto civile e il senso di cittadinanza comune che vogliamo costruire nella società europea da una parte e dall’altra dei vecchi confini. Ed è un punto che tocca in maniera decisiva il contributo e la responsabilità degli intellettuali nella formazione dell’immagine che i cittadini italiani, sloveni e croati hanno e avranno sul loro passato, sulle ragioni e sui torti che li hanno divisi, e sui modi con cui dar vita domani alla reciproca integrazione.
Stelio Spadaro (PD Friuli Venezia Giulia)