di NICO NALDINI
La Grande Guerra era finita. Il tenente Giovanni Comisso di Treviso aveva combattuto dal primo giorno fino all’ultimo, quando le campane dei campanili superstiti alle cannonate dei due fronti avevano riempito l’aria della musica della gioia e del ringraziamento.
Comisso spesso in prima linea aveva fatto sempre il suo dovere, ma detestava le pose eroiche. Pensava che non le decisioni umane bensì gli intrecci del caso stabilissero la sorte degli individui. Come durante la ritirata di Caporetto, quando riuscì a imboccare in mezzo all’accerchiamento austriaco un corridoio momentaneamente libero nel bosco, portando in salvo il battaglione che comandava. Elusa la manovra austriaca, avevano trovato rifugio in un cascinale abbandonato, dove nella stalla c’era una vacca solitaria che muggiva disperatamente. Il comandante Comisso diede allora ordine di abbatterla e mentre i soldati arrostivano le carni nel cortile, lui aveva trovato un letto dove abbandonarsi a una lunga siesta piena di sogni e di oblio per quanto era appena accaduto.
Questi era il tenente Comisso, ligio al dovere, ma capace sempre di trovare anche nelle situazioni più drammatiche la sua libertà; che significava soprattutto gioia di vivere.
Giovanni era un rampollo della borghesia trevigiana, un padre commerciante agiato, la madre sorella del famoso generale Tommaso Salsa. Ma il giovane Comisso si era precocemente scontrato con i limiti della sua classe sociale. Non amava il denaro e preferiva la libertà al successo (oggi diremmo ”visibilità”). Il rapporto si era fatto così teso che Giovanni salutò la guerra come una sua personale liberazione. E infatti la guerra fu per lui una lezione di vita attraverso l’incontro con il mondo popolare italiano che dall’estremo Sud al Nord si era per la prima volta mescolato nelle trincee fondando il primo vero atto dell’Unità d’Italia.
Ma non erano questi i problemi che agitavano Comisso. Egli voleva soprattutto conoscere il popolo nelle sue infinite varietà di lingua, di carattere e di storia, perchè percepiva che in esso avrebbe trovato la libertà e la saggezza ideali. Non era solo evasione dalle angustie del mondo borghese, bensì conoscenza della vita e delle forze che aiutano l’uomo a resistere e compiere il suo destino.
La fine della guerra gli parò davanti i doveri che da lui si attendevano: una laurea e quindi una dignitosa professione legale. E invece Giovanni sognava le colline del Piave: là avrebbe voluto andare a vivere per sempre. Ma spiccare il volo e sistemarsi in uno dei tanti sfondi del Giorgione o di Cima da Conegliano, vivere all’interno di essi come unica alternativa di vita, non poteva rivelarsi altro che un sogno poetico.
Ma non era stato proprio il tenente Comisso a teorizzare il caso come necessaria guida alla nostra esistenza? Il caso, questa volta con una C maiuscola, si chiama D’Annunzio. Contro le decisioni internazionali circa il nuovo assetto dell’Europa, egli occupa il territorio di Fiume e lo rivendica all’Italia. Sull’Impresa fiumana sono state scritte intere biblioteche. Un argomento così dibattuto che noi lo lasciamo volentieri agli specialisti e ai divulgatori. Ci bastano alcune figure di questi legionari fiumani, giovani appena usciti dalla guerra, sedotti e ammaliati da D’Annunzio.
Alcuni sono eroi autentici, altri avventurieri in cerca di fortuna; molti i ragazzi scappati di casa insofferenti di tutto. Comisso non è più un ragazzo, è un ufficiale decorato, ma anche lui in qualche modo è scappato di casa. Ha disertato l’esercito regolare e si è presentato alla sbarra che divide il Regno d’Italia dalla Fiume dannunziana, portando sotto il braccio i Dialoghi di Platone, perchè anche lui forse sogna una Repubblica platonica.
Viene accolto da D’Annunzio nella sezione del ministero degli Esteriori, dove conosce alcuni personaggi che gli resteranno legati per il resto della vita. L’americano Henry Furst, che scrive sul supplemento letterario del New York Times. Il poeta belga Leone Kochnitzsky; e soprattutto il grande Guido Keller. Grande, perchè è stato un asso della squadriglia di Francesco Baracca e ha abbattuto sei aerei austriaci. Grande perchè l’estetica dell’eroismo raggiunge in lui livelli ineguagliati. Adesso coltiva le premesse di una rivoluzione non comunista, bensì nazionalista, idealista. Incapace di coordinare le sue idee in un programma definito, è sempre esposto agli stimoli esteriori che di volta in volta lanciano una sfida al suo coraggio.
Durante l’avventura fiumana Giovanni passa con veloce oscillazione da una certa débauche legionaria alle aspirazioni di una vita ideale riassunta miticamente nel rifiuto dei privilegi della cultura borghese e nella polemica contro l’Europa razionale e affaristica, da cui bisogna evadere al più presto.
I genitori di Giovanni leggono le sue lettere un po’ sgomenti, un po’ orgogliosi, augurandosi che il loro Giovanin metta presto la testa a posto. «”Fret und Mut. Gioia e coraggio!” dice Goethe. Io rido e lavoro, Rido con questa ragazza che si chiama Carmen e che mi è terribilmente piacevole come per Leopardi erano i gelati e il brodo… per la strada passa D’Annunzio (un fiore gli è caduto sopra al berretto) sbarcato da una nave mentre i soldati e le donne si gettano in carnevale».