Il volume che Federico Falk, esule da Fiume, dona alla memoria postera ha l’aspetto di un repertorio, di un puntuale schedario che riassume di ciascun nucleo famigliare le notizie essenziali: i nomi, la provenienza, la residenza, la composizione, la professione, la deportazione. A sfogliarlo, sembra un catalogo del grande composto dell’impero austriaco, un amalgama e un intersecarsi di luoghi e di passaggi sui quali anche la storia pare quasi confondersi e perdersi nell’intrico di peregrinazioni antiche e di moderne soste.
La storia delle comunità ebraiche del Quarnero, ci informa Falk, è documentata almeno dal XV-XVI secolo, ed è presumibile fossero composte da israeliti sefarditi (ovvero “occidentali”, di origine spagnola, i discendenti degli scampati nel XV secolo alle persecuzioni dei re «cattolicissimi» Isabella e Alfonso) provenienti dalla Dalmazia (Spalato e Ragusa, non a caso porti di un considerevole rilievo). Al 1789 data la prima Torah (il rotolo delle sacre scritture custodito in ogni sinagoga) di cui si abbia notizia certa; e al 1781 risale il primo regolamento della comunità di Fiume, «redatto – come scrive l’Autore nella sua prefazione – in un brutto linguaggio latino burocratico-notarile sulla falsariga del regolamento triestino scritto in italiano dieci anni prima». Ma è dagli anni Venti dell’Ottocento che si iniziò a registrare un costante e crescente afflusso di famiglie ebraiche dal Levante, dall’Italia e successivamente dall’Ungheria: un dato che potrà essere messo in relazione con il crescente (benché a tratti altalenante) rilievo economico e mercantile della città. Nel 1895 si contava un totale di 1.600 persone, quasi esclusivamente di origine magiara, il che determinò l’introduzione e l’affermarsi dei riti ashkenaziti, ovvero “orientali”, officiati in ungherese e italiano mentre la lingua ufficiale della comunità era l’italiana: un dato storico incondizionato ben anteriore a tutte le successive dispute e strumentalizzazioni sull’esclusivo carattere mono-linguistico croato della popolazione fiumana. Ciò che emerge invece, anche in questo particolare settore dell’indagine storica, è il vasto assortimento delle provenienze, dalla Russia all’Italia peninsulare, dalla Polonia all’Ungheria, dalla Germania alla Croazia all’Austria, così ampio che pare un atlante dell’Europa e che trovava la più elevata conferma scritta nell’incipit dei proclami dell’imperatore, «ai miei popoli»: le quali lontane provenienze si trovavano però infine, nell’impasto dell’emporio adriatico, ad amalgamarsi nella scelta di una lingua già rinvenuta in loco, trasmessa nei secoli per i canali delle istituzioni municipali e della consuetudine di costumi.
Il peso, politico e culturale, della comunità ebraica quarnerina si sarebbe manifestato più avanti, tra XIX e XX secolo, nell’affermarsi di figure di rilievo della vita cittadina e non soltanto: i Maylander, protagonisti del nascente agone politico e civile incasellato tra l’antica dimensione municipale e le nuove aspirazioni nazionali, sino ai Dalma e ai Valiani a metà del Novecento. Tra di essi anche volontari dannunziani, come Emerico Polgar; o scomparsi a seguito di arresto della polizia politica jugoslava a guerra già terminata, come Nicolò Granitz; o antifascisti e autonomisti come Angelo Adam, che, sopravvissuto alla deportazione a Dachau, rientrato a Fiume venne arrestato dai «titini» e mai più se ne ebbe notizia (così come della moglie e della figlia che ardirono chiederne informazioni); o come Pietro Blayer, presidente nel secondo dopoguerra della Unione delle Comunità Ebraiche italiane, del quale si ricorda l’impegno profuso a favore della rinascita delle collettività israelitiche.
Le testimonianze successive all’esodo di Teodoro Morgani, Paolo Santarcangeli, Giovanni Dalma e di altri noti o meno esponenti ebrei fiumani, variamente scampati con i concittadini cristiani ai tremendi flagelli del conflitto e della persecuzione, restituiscono un’immagine di serena convivenza e reciproco rispetto tra le fedi religiose, aduse dalla consuetudine di qualche secolo ad intersecarsi e a condividere un medesimo spazio urbano e culturale. Vicini di casa, professionisti, commercianti, artigiani, taluni ricordano che se ne riscoprì improvvisamente l’origine ebraica con l’introduzione delle leggi razziali, abbattutesi su una consolidata comunità che poteva vantare, nella stessa città, due templi, e poco distante, ad Abbazia, un terzo. Così Anita Antoniazzo, storica dell’arte, in una intervista a Ilona Fried ricordava di aver abitato in un palazzo nel quale di dieci inquilini «cinque o sei erano ebrei e qualcuno era anche protestante […] era una vita molto civile con grande rispetto […]. Mia madre mi diceva sempre: tu devi vedere se la persona è onesta o no. E lui deve avere la sua religione, non la tua».
Il piano nazista di eliminazione delle comunità ebraiche in Europa trovò a Fiume, al contempo, una collettività facilmente rintracciabile e generalmente in vista nella società cittadina, e un prodigo ma precario argine nella coscienza di Giovanni Palatucci, questore f. f. il cui ufficio era dirimpetto alla Sinagoga maggiore di Via del Pomerio, distrutta nel 1944 dall’incendio provocato dalla polizia tedesca. La generosa e rischiosissima azione clandestina di Palatucci, intrapresa per agevolare la fuga di quanti gli si rivolgevano per avere aiuto, non poté naturalmente opporsi al continentale progetto di sterminio posto in atto, e ciò emerge – con tragica sintesi – dalla lettura di prevalente parte delle schede elaborate da Falk: «deportati», «uccisi» «deceduti in luogo e data ignoti». «Tutti noi dobbiamo essere grati all’ing. Falk – ci scrive la signora Giosetta Smeraldi – che con la sua importante opera di ricerca ci riporta alla memoria i nostri ebrei fiumani, le loro attività imprenditoriali, i bei negozi dove sempre si era accolti con gentilezza, i molti compagni di giochi di scuola e di ideali. A fine guerra i pochissimi che ritornarono a Fiume non trovarono la loro casa […]. Se ne andarono in cerca di una nuova dimora, non casa, perché la casa è quella cui sei nato. E moltissimi erano nati a Fiume».
Ma il ricordo della tragedia dell’ebraismo fiumano così come dell’intera città esodata sotto le violenze dei nuovi occupatori jugoslavi «non può rischiare di diventare irrimediabilmente lontano», come teme Mario Toscano nella sua Prefazione. Se è vero che i totalitarismi del Novecento hanno pianificato e posto in essere la scomparsa della cultura della convivenza così come l’eliminazione, fisica o culturale, di intere popolazioni e minoranze nel nome della razza o della omologazione etnica e ideologica, l’abisso nel quale sono precipitate le vittime in quegli anni luttuosi non può non trovare un sia pur parziale riscatto nella coscienza dei posteri: il che non risarcirà nessuno della vita sottratta ma permetterà di costruire in ciascuno l’argine più forte all’intolleranza e all’ignoranza, che camminano da sempre di pari passo, nell’anima dei singoli individui come dei popoli.
Patrizia C. Hansen
Federico Falk,
Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali
Prefazione di Mario Toscano, Roma 2012, pp. 324, s. i. p.