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Con Tomizza gli studenti imparano la tolleranza (Il Piccolo 18 giu)

di MARINA NEMETH

Quello straniamento, quel non sentirsi né ad una parte né all'altra che hanno caratterizzato l'opera e la personalità di Fulvio Tomizza, non sono forse tratti distintivi anche delle generazioni del terzo millennio? E in particolare del mondo degli adolescenti, oggi stretti fra ansia di libertà e un futuro sempre meno immaginabile e accertato? Certo che sì, se è sufficiente raccontare attraverso parole ed immagini sentite le esperienze di vita e letterarie del grande scrittore istriano ad un gruppo di ragazzi alle soglie dell'esame di maturità per creare un'immediata e singolare empatia.

È ciò che è accaduto all'Istituto tecnico Deledda, dove la moglie Laura Levi Tomizza ha portato “la parola viva” dell'autore di “Materada” e de “Gli sposi di via Rossetti” in un incontro che non ha avuto nulla di formale, molto poco lezione e tanto partecipazione (nonostante la presenza in prima fila della preside e di un’insegnante, le professoresse Lucia Negrisin ed Elsa Zibai, quest'ultima organizzatrice dell'iniziativa), a pochi giorni dall'uscita del volume di scritti inediti dello scrittore “Le mie estati letterarie”. Ore 12, la sala dell'istituto si riempie di zaini colorati, felpe abbondanti e magliette strizzate su jeans a sigaretta. Non è certo il pubblico dei convegni letterari. «Ma è quello – dice Laura Levi – che Fulvio amava di più. La purezza dei giovani, il loro senso di giustizia, lo ha sempre affascinato, girava l'Italia per incontrare gli studenti delle scuole superiori, e ancora oggi da tutto il paese continuo ad essere chiamata da studenti che preparano tesi universitarie sulla sua opera».

Il ricordo la emoziona, e infatti la voce è commossa quando inizia a parlare, ma proprio questo sembra catalizzare ancora di più l'attenzione. Il silenzio è fitto quando spiega come entrambi vissero il dramma dell'esodo (lei quello ebreo della deportazione, lui quello istriano) e quanto questo costituì il collante e la condivisione delle loro vite. Un tragedia che superarono non sposando l'odio ma la tolleranza della memoria.

Poi parte uno splendido film documentario su Tomizza a Materada realizzato dalla Rai negli anni Settanta, la sua voce scandita dal flessibile accento istriano buca lo schermo e riempie l'aula. I fotogrammi immortalano lo scrittore mentre condivide il lavoro con un vecchio contadino, coltiva le vigne, cura i campi, dialoga con i bambini bosniaci del paese. La miglior vita. Un misto di lingue e dialetti che si intrecciano e che qui si sono amalgamati. Né slavo, né italiano. Cittadino e borghese, ma anche figlio della terra, nella sua stanza spoglia, un tavolo di legno, una penna e una finestra. «È la cultura che Tomizza ha sempre rivendicato essere superiore a tutte le differenze imposte dai poteri per dividere e dominare – spiega la professoressa Zibai – La cultura che è in grado di trasmettere tolleranza e rispetto». Una lezione di civiltà che arriva dal passato.

Inizia il fuoco di commenti. La terra, dice un ragazzo, è come una madre che accoglie, protegge e nutre. Ma la madre, ribatte una compagna, può essere anche ciò che distrugge: un po' come il bosco selvaggio che nel filmato entra nella casa di Materada e che lo scrittore deve continuamente tagliare. Il bosco «come simbolo della malinconia nella sua scrittura». E chissà cosa penserebbe oggi Tomizza della società dell'apparire in cui questi ragazzi crescono. Certo, sarebbe orgoglioso che almeno una buona parte di essi ha colto il suo messaggio. Lui uomo schivo, che nella campagna, diceva, ritrovava la pace: «Lontano dagli inquinamenti, dai giochi di potere, dai do ut des».

 

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