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Corrado Belci, la politica nel nome del bene del comune (Il Piccolo 06 mag)

La fiducia dei cittadini nei confronti degli amministratori della cosa pubblica è ai minimi storici. Etica e moralità non sembrano far parte del vocabolario del buon politico. Ma c’è stato un tempo in cui questi erano i valori di chi sceglieva di perseguire il bene comune. Erano i tempi dell’impegno politico di Corrado Belci, istriano, esule a Trieste, giornalista, grande attore in quella stagione di forte trasformazione che ha caratterizzato la nostra città dal dopoguerra in poi. Da segretario provinciale della Dc a parlamentare per tre legislature dal 1963 al ’79, Belci fu anche sottosegretario al commercio estero, e figura di spicco del cattolicesimo democratico con una visione profondamente laica della politica. A un anno dalla sua scomparsa è stato ricordato nel convegno organizzato dall’Istituto Sturzo nell’aula magna della facoltà di Scienze della formazione.

 

A rievocare il suo pensiero il figlio Franco Belci, segretario regionale della Cgil (presenti anche la moglie e gli altri figli): «Ci ha lasciato molto come impegno politico e spirito di servizio. Profondamente religioso e laico, ha saputo distinguere i valori in cui credeva con la consapevolezza che non potevano essere imposti». Ricordare l’impegno di Corrado Belci non è solo un’occasione memorialistica, ha detto il rettore Francesco Peroni, «ma un modo per ritrovarci sui temi e sul suo messaggio che sono un patrimonio di attualità». Un presente che per il sindaco Cosolini ha assolutamente bisogno di una buona politica «per uscire da una crisi non solo economica ma anche morale. Le testimonianze di buona politica fanno bene». A scandagliare quella che fu la buona politica di Belci sono stati i suoi compagni di partito, come Dario Rinaldi: «Fu uomo di fede, cristiano convinto, impegnato in politica per perseguire il bene comune, quando la democrazia si poteva costruire solo sui principi della Costituzione». Si è soffermato sulla partecipazione alla vita politica triestina Guido Bodrato, che con Belci, Giovanni Galloni e Beppe Pisanu faceva parte di quella che era chiamata “la banda dei quattro fedelissimi” dell’allora segretario Dc Benigno Zaccagnini: «Trieste era il problema di Belci e alcune questioni sono rimaste irrisolte per questioni strutturali, ma ha saputo creare un ponte ideale tra la città e il mondo attraverso il Collegio del mondo unito».

 

Lo storico Raoul Pupo ha ricostruito il suo percorso di esule, di giornalista prima come direttore dell’Arena di Pola e poi al Gazzettino e soprattutto nella redazione di Vita Nuova, «un vero laboratorio – così Pupo – del cattolicesimo di frontiera. Ma la vera sfida di Belci è stata quella di voler dare a Trieste un futuro con l’idea di farla diventare una città di frontiera oltre i vincoli internazionali di fronte ad una società civile recalcitrante». Per Giovanni Miccoli Belci in questi ultimi anni guardava alla politica con preoccupazione che si «stravolgesse la Costituzione con il rischio dello spegnimento progressivo della tradizione della Democrazia cristiana per far fronte ai moderni clericalismi». A ricordarlo anche Giuseppe Bachelet, figlio del giurista ucciso dalle Brigate rosse: «Bisogna tenere viva la memoria di chi ha avuto una visione reale e non strumentale della democrazia».

 

Ivana Gherbaz

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