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Corriere Adriatico – 230907 – Dall’altra sponda della Storia

A Pesaro sfilano le genti di Dalmazia l’italianità di una terra riportata sotto l’influenza slava

Memorie
 
DALL’ALTRA SPONDA NELLA STORIA

TOCCA a Pesaro. E’ la nostra città marchigiana a ospitare il cinquantaquattresimo raduno nazionale dei dalmati d’Italia. Sfilano quelli che non dimenticano l’altra sponda dell’adriatico, la sua italianità, quel destino crudele che la riportò sotto l’influenza slava nella federazione voluta da Tito. Un’assieme che solo il comunista croato di Kumrovec poteva tenere in piedi. Un patto generato nel sangue e nel sangue finito, neanche cinquant’anni dopo, con gli aerei della Nato che partivano dall’italico suolo furlan. Brutta, bruttissima storia che gli esuli ricordano oggi come fosse appena ieri e sono passati 54 anni dalla decisione di radunarsi, 54 come le incursioni alleate che ridussero Zara a un cumulo di rovine, quattromila morti sotto i bombardamenti angloamericani, il 90 per cento delle costruzioni distrutte, perduta nella polvere la più bella roccaforte veneziana della costa dalmata mentre più a sud Spalato conservava le sue straordinarie vestigia romane. In pochi mesi muore la Zara italiana e Tito impone la Zadar jugoslava. Duemila italiani fatti fuori senza pietà, deportati, ammazzati per le strade o con un cappio al collo e una pietra in mare. I bombardamenti di Zara sono una palese astrusità militare. Si dice imposta da Tito che riuscì a convincere gli alleati, soprattutto gli americani, che da Zara partivano i rifornimenti alle forze tedesche nei Balcani e quelle fasciste agli ustascia croati. In realtà l’obiettivo era spegnere in tempi rapidi l’italianità della costa dalmata per concentrare le forze dei partigiani slavi in Istria dove la partita, per motivi geopolitici e le pesanti ripercussioni internazionali, si faceva via via più difficile. Zara era avamposto di niente, non aveva alcun peso strategico. Gli italiani della città, come della costa dalmata da Sebenico fino al sud, dovevano difendersi dai bombardamenti alleati, dai nazional comunisti di Tito e dagli ustascia di Pavelic, in teoria foraggiato proprio da Mussolini. Il duce lo aveva allevato alla destra militare nel lungo soggiorno pesarese e romagnolo che fece dell’aspirante dittatore croato un replicante dal fascismo italiano.

Di questo coacervo di interessi e spinte centrifughe il lettore perderà il filo, ma l’antica ambivalenza e complessità della vicenda slava a questo porta e confuse una generazione di partigiani italiani in territorio giuliano, istriano e, in Dalmazia, persino reparti dell’esercito regolare. Fu naturale per loro, dopo l’abbandono dell’otto settembre, schierarsi dalla parte di Tito e dei socialisti slavi contro la tirannide nazifascista e la sua versione balcanica targata Ante Pavelic. Gente in buona fede, ufficiali pluridecorati persi nell’inganno titoista, dichiarati fessi dal troppo ovvio senno del poi. Tanti gli esempi. Non ci sono solo i comunisti finiti all’isola calva e persino nelle foibe istriane.

Un migliaio di militari italiani (tra cui almeno duecento carabinieri) si schierarono a Spalato e Traù con la resistenza slava formando il battaglione Garibaldi che si unì poi con il parigrado battaglione Matteotti, formatosi spontaneamente in territorio bosniaco. Peggio fecero soltanto le divisioni Venezia e Taurinense, roba da quasi ventimila uomini, anche loro smaniosi di intrupparsi nella Garibaldi. Ma Tito praticò uno spietato divide et impera, li mandò sparpagliati in cento altre formazioni partigiane, ovviamente guidate da croati. La leadership doveva essere jugoslava, nessun italiano avrebbe dovuto rivendicare un ruolo fondamentale (e dunque avanzare pretese terragne) nella liberazione dall’invasore.

L’ultimo tentativo di salvare Zara fu azzardato da alcuni ufficiali della decima mas, i marò del principe Borghese. Era l’ultima spiaggia. Corsero ad allearsi moltissimi giovani, tra i quali anche l’imberbe cantante Sergio Endrigo. Più che cantare, i nostri furono suonati. La compagnia si chiamava D’Annunzio, come il poeta soldato che nella vicenda di Fiume aveva sperato di svoltare, vent’anni prima. Fu il suo banco di prova nel lontano primo dopoguerra quando la retorica passatista della nazione vincitrice ma offesa, l’aveva portato a occupare manu militari proprio Fiume. Mussolini fece la voce grossa (“è sul Quarnaro il nostro governo, al quale d’ora innanzi obbediremo”) il nostro direttore, il brillante Vittorio Vettori da Ancona (L’Ordine-Corriere delle Marche, l’attuale Corriere Adriatico) e da Roma (Il Giornale d’Italia) ri vendicava l’Istria e la Dalmazia come “la quarta parete d’Italia”, D’Annunzio rilanciava vagheggiando un golpe e sperando di marciare da Fiume su Roma via Ancona (sono i giorni dei fatti della caserma Villarey).

Gli americani chiedono il rispetto degli accordi presi con il presidente Wilson. I fascisti non se ne vanno. Giolitti perde la pazienza: incarica il generale Caviglia di risolvere alla sua maniera, e a cannonate convince il poeta abruzzese e i legionari fiumani a sloggiare. E’ appena il 1920.

Un lunga storia di andate e ritorni. Gli esuli di Zara e il suo presidente onorario Detoni sanno meglio di noi come andò, sanno della violenza gratuita che segnò la città della loro infanzia, divisa dal mare comune, l’Adriatico mare da bambini, come lo chiama Piero Ottone. Era chiaro già dal settembre 1943 che Zara non poteva essere un obiettivo militare ma solo politico. La città era presidiata da pochi tedeschi (forse 200) da volontari zaratini della Rsi, da una cinquantina di carabinieri. Ma fu lo stesso un massacro. Quando ci arrivò Tito, nel novembre del ’44, ci trovò le macerie che aveva cercato
 
PAOLO BOLDRINI*,* STORICO,

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