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Corriere della Sera – 070607 – Gli 80 anni di Enzo Bettiza

ANNIVERSARI Gli ottant' anni di un grande giornalista che è diventato protagonista della scena letteraria

Enzo Bettiza, il liberale venuto dalla Mitteleuropa

Con il romanzo «Esilio» vinse il premio Campiello

Domanda: quale, fra gli scrittori contemporanei di lingua italiana, definireste «stambecco»? Cioè solitario, aristocratico, orgoglioso testimone di una cultura insofferente dei provincialismi? Se non avete risposto «Enzo Bettiza», vuol dire che non lo conoscete. E anche oggi, giorno in cui compie ottant' anni, l' età rotonda delle consacrazioni, vi sfugge la nota unica che risuona nelle sue pagine. O, se preferite, il vostro orecchio non è allenato a riconoscere quel suo particolare timbro, l' intonazione inconfondibile dello scrittore, del giornalista della Stampa collocato ostinatamente fuori dal coro. Non sarete gli unici, comunque, a trovarvi in difetto. Perché Enzo Bettiza, decorato ufficialmente con il titolo di «grande», si è visto accostare spesso anche la definizione di «scrittore difficile». Sarà a causa del suo periodare sinuoso, unito alla misura lunga dei romanzi, che indusse Carlo Bo a inserirlo nel club dei «memorialisti dinastici», alla Proust e Thomas Mann. Sarà il contesto mitteleuropeo da cui trae umori e scenari, per cui Indro Montanelli lo collocò nell' album di famiglia che include Italo Svevo, Joseph Roth e Franz Werfel. O, ancora, sarà il suo rapporto diretto con il mondo dell' impegno, lo stesso che indusse Cesare Cases a definire La campagna elettorale l' unico romanzo politico nella letteratura italiana del dopoguerra, e portò Geno Pampaloni a sottolineare come Bettiza si interessi all' ideologia soltanto per contrapporle la libertà e la ricchezza esistenziale dei personaggi. Sarà, infine, per la ricercatezza dei suoi dialoghi romanzeschi, dove non conta la verosimiglianza né il «parlato», ma soltanto il gioco delle idee. Per tutti questi motivi, dunque, Enzo Bettiza è rimasto «stambecco», e a lungo persino i suoi ammiratori sono rimasti incerti nello scegliere fra le sue diverse incarnazioni: giornalista di razza (prima «scrittore viaggiante» del Corriere della sera, poi fondatore del Giornale con Montanelli, oggi articolista della Stampa e tra i pochi che si devono leggere ogni mattina), politico liberale (persino in un ruolo internazionale come parlamentare europeo), saggista un po' sulfureo, romanziere, viaggiatore attraverso lo spazio geografico e metaforico dell' Austria-Ungheria e dell' Unione Sovietica. Ma il tempo, grande giustiziere, ha fatto emergere infine il profilo del Bettiza più vero, la sua anima profonda. La celebra proprio in questi giorni la prima tesi di laurea a lui dedicata: Enzo Bettiza, un ponte ritrovato tra Dalmazia e Italia, che il giovane slavista Matteo Esposito ha discusso alla Sapienza, suscitando un giudizio solenne in Predrag Matvejevic: «La Dalmazia non ha mai prodotto uno scrittore di livello europeo così alto. E che si congiunge a Tommaseo». L' accompagnano una imminente traduzione in croato dell' ultimo, complesso romanzo, Il libro perduto, e il prossimo conferimento della laurea honoris causa all' università di Spalato. Oltre, naturalmente, al premio Montanelli, ricevuto pochi giorni fa, un riconoscimento alla carriera che anche nelle parole di Pierluigi Battista è sembrato un simbolico passaggio di consegne. Eppure, tutto questo non basta, perché «normalizzare» uno scrittore capace di dedicare vent' anni di lavoro al fluviale romanzo I fantasmi di Mosca, è impossibile. Oltre duemila pagine, per quello che probabilmente costituisce il suo capolavoro assoluto, e che a sua volta generò come una specie di sottoprodotto saggistico Il Mistero di Lenin, rendono proibitivo qualunque accostamento agli scrittori «normali», Né è giusto insistere in una contrapposizione polemica proposta tempo fa da Carlo Sgorlon: la sua vena lussureggiante e sinfonica da opporre alla «triade anemica e illuministica dei Calvino, Gadda e Sciascia». Tanto meno la «normalizzazione» è possibile dopo l' uscita del Libro perduto, altro opus magnum (seppure non quanto i Fantasmi) rimasto a fermentare per ben quarant' anni nella fantasia dell' autore. «I miei sono tempi lunghissimi e le mie opere somigliano a concrescenze minerali», ammette oggi, sorridendo di se stesso, Enzo Bettiza. La sua impossibilità di essere «normale», dunque, resta. Lo testimonia il sostanziale distacco con cui guarda alla narrativa italiana dei quaranta o cinquantenni, con forse la sola eccezione di Piperno, per certi tratti cosmopoliti della sua narrativa. Una caratteristica bettiziana che può essere definita «doppia», un sentirsi contemporaneamente «fuori e dentro» le vicende italiane: opinionista politico, appassionatamente «dentro il sociale»; scrittore, invece, «fuori dalla chiacchiera italica», una specie di «esilio interno» che può ricordare quello antico del dalmata Tommaseo. E oggi? Prepara un' opera nuova, le confessioni di un picaro tragico, un Felix Krull alla Thomas Mann, il «diario di un novantenne che passa indenne da una mascalzonata all' altra». E viene in mente di nuovo per lui quella idea dell' «esilio». Undici anni fa, con un romanzo che aveva quel titolo, conquistò il premio Campiello; ora forse Bettiza si appresta a conferire alla parola un nuovo, inedito significato.

Fertilio Dario

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