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Corriere della Sera – 180308 – Quando l’unità è a rischio

Lettere a Sergio Romano –  Quando l'unità è a rischio: due casi: Italia e Jugoslavia

 

Non le pare quanto meno curioso che una nazione come l'Italia, dove la semplice richiesta di secessione è considerata un reato gravissimo contro l'integrità dello Stato, dove per lunghi anni sono stati incarcerati gli artefici della goliardica e simbolica occupazione del campanile di San Marco a Venezia nel 1997, poi mandi proprie truppe a garantire la secessione unilaterale del Kosovo dalla Repubblica di Serbia?

Diego Kuzmin, Gorizia

 

Caro Kuzmin,

l'Italia perdette male e poco onorevolmente la Seconda guerra mondiale, ma s'impegnò con le sue migliori energie per non perdere la pace. La sua migliore classe dirigente (la diplomazia, l'amministrazione del ministero degli Interni e la Dc di Alcide De Gasperi) si batté con abilità e intelligenza per conservare l'integrità del territorio nazionale.

Per darle un'idea dei rischi a cui il Paese era esposto in quel momento, le ricordo che la Francia voleva la Valle d'Aosta, l'Austria voleva la provincia di Bolzano, la Jugoslavia di Tito voleva Trieste e Gorizia, e la Sicilia era agitata da un movimento separatista in cui qualcuno sognava di aggiungere una stella alla bandiera degli Stati Uniti.

La questione siciliana fu una questione interna e venne risolta soprattutto dai carabinieri i quali stroncarono sul nascere quella che sarebbe potuta diventare una piccola guerra di secessione. Il problema di Bolzano fu risolto da Alcide De Gasperi a Parigi, prima della firma del Trattato di pace, durante un incontro a quattr'occhi con il suo collega austriaco Karl Gruber. La soluzione politica per la Valle d'Aosta fu trovata anche grazie alla migliore classe dirigente della regione (gli Chabod, i Passerin d'Entrèves), legata a Torino e alla penisola più di quanto fosse legata a Chambéry e alla Savoia. Il confine più sacrificato fu quello orientale.

Perdemmo l'Istria, Fiume, Zara, una parte della provincia di Gorizia e, per alcuni anni, persino Trieste dove fu costituito un effimero Territorio Libero. Ma qualche anno dopo, nel 1954, riuscimmo a recuperare Trieste. Pagammo il successo, naturalmente, concedendo alle regioni «salvate» uno statuto di autonomia alquanto costoso per il bilancio dello Stato.

Ma conservammo, nonostante qualche sacrificio territoriale, l'unità nazionale.

Anch'io penso che la pena inflitta ai «serenissimi» sia stata eccessiva, ma la sentenza rispecchia le tendenze prevalenti della classe dirigente nazionale e il timore, mai interamente dissipato, di una possibile disgregazione della penisola. La consapevolezza della fragilità dello Stato unitario ci induce talvolta a vedere grandi pericoli là dove esistono soltanto piccole velleità.

Occorre riconoscere che all'inizio degli anni Novanta, quando scoppiò la crisi jugoslava, il governo italiano ebbe sentimenti simili a quelli che la nostra classe dirigente aveva provato per il suo Paese. Ma dovemmo subire la frammentazione dello Stato vicino per due ragioni. In primo luogo non riuscimmo a frenare la Santa Sede e la Germania, ambedue impazienti di riconoscere la Slovenia e la Croazia. In secondo luogo l'Italia, in quegli anni, era sul piano internazionale sostanzialmente irrilevante.

Eravamo nel mezzo di una crisi costituzionale che paralizzava la nostra diplomazia.

I ministri entravano e uscivano dalla Farnesina come i clienti del Grand Hotel nel famoso romanzo di Vicky Baum (ne avemmo sette fra il 1992 e il 1996). Fummo persino esclusi dal «Gruppo di contatto», il direttorio costituito dalle potenze che avevano maggiore interesse a una evoluzione pacifica della crisi jugoslava.

Quando cominciammo a tornare in campo, nella seconda metà degli anni Novanta, gli accordi di Dayton avevano già sancito la disintegrazione del Paese. E quando accettammo di essere la portaerei degli Stati Uniti per la guerra contro la Serbia nel 1999, il governo fu motivato soprattutto dal desiderio di dimostrare a Washington che una coalizione di centrosinistra, guidata da un ex comunista, era pronta a rispettare gli obblighi di solidarietà dell'Alleanza Atlantica. Ancora non riesco a capire, invece, perché il governo Prodi abbia collaborato all'«operazione Kosovo ». Un atteggiamento simile a quello della Spagna sarebbe stato più conforme ai nostri interessi.

 

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