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Così Carpinteri raccontava la vera storia del “Piccolo” (Il Piccolo 20mag13)

Feste e scioperi a parte, “Il Piccolo” di Trieste rinasce tutti i giorni da 130 anni. La sequenza delle sue uscite s’interruppe soltanto due volte: il 23 maggio del 1915, allorché la Luogotenenza del governo austriaco, dopo aver esposto il vessillo imperiale per annunciare l’inizio della guerra con l’Italia, incoraggiò una plebe di forsennati a incendiare la sede del giornale; e il 1° maggio del 1945, quando per la città giunta alla fine dei venti mesi da incubo vissuti all’insegna della svastica, cominciarono i 40 giorni di minaccioso sventolìo dei tricolori jugoslavi e delle bandiere rosse. Alla portata degli eventi clamorosi che, in entrambe le occasioni, sembrarono decretare la morte del “Piccolo” fanno contrastante riscontro il silenzio e la disattenzione della città in cui vide la luce il quotidiano destinato a testimoniare la sua storia e a identificarsi con essa nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e lungo l’intero arco del XX secolo, arrivando a varcare la soglia del terzo millennio. Al giornale che venne al mondo il 29 dicembre del 1881 ben si addiceva il nome da neonato impostogli dal suo giovane papà: infatti, “Il Piccolo”, secondo quanto si legge nel libro pubblicato da Silvio Benco per celebrarne il cinquantenario, misurava 50 centimetri per 30, proporzioni quanto mai anomale per i quotidiani del passato anche recente ma più o meno uguali a quelle del “Piccolo” nel suo formato odierno.

Se Teodoro Mayer, così si chiamava il suo fondatore, scelse di esordire in uno di quei giorni scoloriti che dividono il Natale dal Capodanno, fu soprattutto perché, con un’anzianità di sole 48 ore, il giornale si potesse fregiare dell’indicazione “Anno II” a sinistra della data di tutti i giorni del 1882. Del primo numero si vendettero 32 copie, ma la decisione di uscire in sordina era stata presa a ragion veduta: meglio evitare che i quotidiani concorrenti si mettessero subito sulla difensiva e non svegliare troppo presto il cane della censura. Quando “Il Piccolo” arrivò a stampare centomila copie diffuse oltre che a Trieste, Pola, Fiume e Zara, in tutte le città della sponda adriatica orientale sino alle Bocche di Cattaro, Mayer divenne l’enfant prodige che aveva fondato il più importante quotidiano italiano dell’Impero austro-ungarico «a poco meno di vent’anni». Per la verità, essendo nato il 17 febbraio del 1860, egli di anni ne aveva compiuti 21: uno di più del Regno d’Italia, ma era appena tredicenne quando, per aiutare la famiglia in precarie condizioni economiche, era stato costretto a cercarsi o inventarsi un lavoro, rivelando un sicuro intuito nell’individuare il gusto e le attese del pubblico.

Primo frutto dell’ingegno di Mayer fu “Il Corriere dei francobolli”, che uscì dal marzo del 1875 all’aprile del 1879. Benco, da fine letterato qual era, vi ravvisò «una palese tendenza a muovere idee, a esercitare il senso critico». Invece i cervelloni del Partito liberale nazionale, pur riconoscendo il talento di Mayer e apprezzandone il battagliero patriottismo, non ebbero la prontezza di avvalersi di lui per allargare la cerchia dei lettori dell’“Indipendente”, un quotidiano venduto a un prezzo troppo alto e fatto per piacere a pochi eletti.

Del resto, il fondatore del “Piccolo” aveva rivelato già nel primo numero del 29 dicembre 1881 il proposito di puntare a un giornale per tutti e tutto da leggere. Non a caso il suo spirito di anticipatore del futuro si era manifestato oltre che nel “Corriere dei francobolli” in un giornale di colore violetto, a volte stampato su tela e dal nome curioso scelto apposta per incuriosire i passanti ai quali veniva distribuito gratis agli angoli delle strade: “L’Inevitabile”. Era un foglio di annunci pubblicitari come quelli che si sarebbero visti in diverse città e, per qualche tempo, anche nella nostra soltanto cent’anni dopo. La gente lo accettava volentieri e lo leggeva con interesse, perché alle inserzioni dei negozianti e delle aziende commerciali si alternavano notizie insolite pescate qua e là, aneddoti, poesiole, brevi racconti per adulti e per bambini.

Nella Trieste di 130 anni fa, si pubblicavano già alcuni giornali d’impostazione più moderna, tra i quali faceva spicco l’“Adria”, supplemento del vecchio “Osservatore triestino”, che vantava una tiratura di 4000 e più copie. “Il Piccolo” voleva e sapeva far di meglio, ma soprattutto di totalmente diverso, perché l’“Adria” legittimista a oltranza, suddita riconoscente dell’imperial-regio governo e cittadina esemplare di Trieste urbs fidelissima dell’Austria si profondeva in pistolotti encomiastici e celebrativi che echeggiavano l’inno ufficiale: «Serbi Dio l’austriaco Regno, guardi il nostro Imperator! Con la fè che Gli è sostegno regga noi con saggio amor!». I versi della traduzione in italiano sono quelli che sono, ma la musica è di Haydn, la stessa dell’inno tedesco. La coincidenza apparve particolarmente significativa nell’anno in cui fu stretta la Triplice alleanza tra il Regno d’Italia, l’Impero germanico e quello austro-ungarico. A un tratto era stata cancellata la memoria dei non pochi conflitti tra tedeschi e austriaci, l’ultimo dei quali – la guerra del 1866 – risaliva a soli 16 anni prima e aveva visto la Prussia di Bismarck aiutare l’Italia a strappare il Veneto all’Austria. Tutto dimenticato, anche a Roma. A quel tempo erano ancora in uso tra i regnanti cortesie di stampo feudale e Francesco Giuseppe fece omaggio a Umberto I della proprietà e del comando di un reggimento. Non occorre dire che, da quel momento, il Re d’Italia divenne per i nazionalisti delusi «quel colonnello austriaco».

I rovesciamenti di alleanze non sono rari in politica, ma il patto a tre firmato a Vienna il 20 maggio 1882 colpì come una pugnalata gli irredentisti delle nostre terre e i molti italiani del Regno che non consideravano concluso il Risorgimento né compiuta l’Unità di un’Italia priva di Trieste e di Trento. La crescita del “Piccolo” che, appena nato, aveva dovuto fronteggiare gli eventi di un anno cruciale, fu bloccata da una serie interminabile di piccole e grandi angherie poliziesche e fiscali. I divieti e la minaccia continua di sequestri pesavano su ogni iniziativa. Una volta era il permesso di vendere il giornale negli spacci di tabacco che si faceva attendere; un’altra si doveva versare una cauzione di 6000 fiorini perché “Il Piccolo” fosse trattato da “giornale politico” con licenza di pubblicare notizie sulle quali la censura avrebbe comunque trovato sempre qualcosa da ridire. La condizione d’inferiorità del quotidiano di Mayer rispetto a quelli favoriti e più o meno palesemente finanziati dal governo,

saltava agli occhi, ma le autorità facevano finta di non vederla.

(fonte “Il Piccolo” 20 maggio 2013)

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