Così comincia ”Quando ci batteva forte il cuore”, il romanzo di Stefano Zecchi pubblicato da Mondadori.
di STEFANO ZECCHI
Mio padre mi ha insegnato a fischiare. Ci mettevo tutto il mio impegno per fargli vedere che avevo capito la lezione, come se a scuola mi stesse interrogando la maestra. Ma non c’era una volta che il cane mi ubbidisse. Correva via, indifferente al mio sgradevole sibilo, quasi volesse dirmi che il fischio, a cui dava retta, era un’altra cosa.
Mio padre sì che sapeva fischiare, e con lui Tommi non sgarrava: sembrava ipnotizzato dai suoi segnali. Io ce la mettevo davvero tutta: osservavo con attenzione per scoprire come lui serrava le labbra, come ci appoggiava le dita e modulava il soffio. Piccole variazioni che gli permettevano un’infinità di sfumature: il suo fischio era autorevole, suadente, ironico. Gli era possibile tutto, come se per lui cambiare il tono della voce o la modulazione dei sibili non facesse differenza. Provavo a imitarlo, inutilmente. Era una sofferenza: mi pareva inverosimile non riuscire in una cosa tanto semplice. Lo invidiavo per quella sua abilità, più spesso lo detestavo. Ancora non sapevo che i suoi fischi mi avrebbero salvato la vita.
Nel ’43, negli anni in cui a Pola la guerra si stava accanendo su di noi, preferivo stare con la mamma; mi aiutava a fare i compiti, mi accompagnava a scuola, soprattutto le confidavo i miei segreti.
© 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano