*Estratto di Verità infoibate (Signs publishing, Milano 2021), di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto
«Gli esuli, schiacciati dalla persecuzione, compresero che sotto quel regime terroristico non sussistevano le possibilità di vivere né da italiani, né da cristiani, né semplicemente da uomini. L’esodo costituì un autentico, terribile plebiscito». Così si esprime, il 4 novembre 1964, l’istriano Gianni Bartoli, sindaco di Trieste, restituita alla madre Patria solamente dieci anni prima, dopo le dolorose mutilazioni territoriali della Seconda guerra mondiale. Parole dettate dal cuore e dal ricordo della triste e silenziosa fuga di oltre 300.000 connazionali dall’Istria e dalla Dalmazia che, dopo il 1945, vengono costretti ad abbandonare la loro terra occupata dai reparti partigiani jugoslavi del maresciallo Josip Broz Tito, per rifugiarsi in Italia o emigrare all’estero. Una brutta pagina della storia del nostro Paese, per alcuni versi ancora aperta, ma a lungo ignorata o sottovalutata. Dopo settantacinque anni è lecito chiedersi: come mai centinaia di migliaia di persone decisero di “votare con i piedi”, pur di scegliere l’Italia?
Qual è stato il destino di questa massa di profughi e delle loro terre e cosa accade oggi in Istria e Dalmazia?
(…)
Dal 1945 al ‘49 si registra il flusso maggiore, ma i profughi continuano ad arrivare in Italia fino ai primi anni Cinquanta e oltre. Gli esuli censiti nel ‘58 sono 201.440 e, secondo padre Flaminio Rocchi, autore di un’opera monumentale sulla pagina strappata della storia d’Italia, altri 50mila muoiono per malattia o vecchiaia senza essere stati registrati, oppure si sono reinseriti autonomamente nella madre Patria. In ottantamila hanno scelto la via dell’esilio all’estero e 15mila sono esodati dopo il ‘58. Nell’immediato dopoguerra da Fiume fuggono 54mila italiani, da Pola 32mila, da Zara 20mila, da Capodistria 14mila. Gli esuli giunti in Italia vengono ospitati in 109 campi profughi. Dalle baracche sul Carso, l’altopiano che sovrasta Trieste, alle vecchie scuole della Sicilia, passando per le caserme di Torino e le ex colonie marine di Bari almeno 300mila istriani e dalmati vengono volutamente dispersi, perché le autorità li considerano pericolosi. «Volevano addirittura le impronte digitali – ricorda il francescano Rocchi testimone del dramma dell’esodo – Il nostro governo scambiava un sentimento forte di italianità che ci aveva portato a rifiutare la Jugoslavia e i suoi metodi con nazionalismo di marca fascista. Fu un brutto equivoco».
A tal punto che il piroscafo Toscana, zeppo di esuli istriani, viene accolto a Venezia dal dileggio dei comunisti locali, che non credono alle foibe e al regime del terrore instaurato dal “compagno” Tito. Sul piano internazionale le cose non vanno meglio, nonostante gli jugoslavi siano stati costretti a lasciare Trieste il 12 giugno 1945 per lasciare posto alle truppe angloamericane, che hanno costituito il Governo militare alleato. Tre giorni prima il generale F. E. Morgan, capo di stato maggiore del quartier generale alleato per il Mediterraneo di Harold Alexander, si è accordato a Belgrado con gli uomini di Tito stabilendo due zone di provvisoria amministrazione. La Zona A che comprende Muggia, Trieste e il litorale fino a Monfalcone, sotto controllo alleato, e la Zona B che si estende dal fiume Quieto fino a Capodistria e Buie, sotto controllo jugoslavo. L’importante porto di Pola passa agli alleati e così avrebbe dovuto accadere per le città italiane della costa, ma non avverrà mai. Alle ore 11 del 10 febbraio del 1947, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, firma il trattato di pace di Parigi che toglie definitivamente all’Italia quasi tutta l’Istria, Fiume e Zara. La Zona B, assieme alla Zona A, vanno a formare il Territorio libero di Trieste, anche se Tito continua a reclamare tutto, compreso il capoluogo giuliano. Il 20 marzo del ‘48, Francia, Inghilterra e Stati Uniti propongono il ritorno della Zona B all’Italia e accusano la Jugoslavia di non «garantire la tutela ed il rispetto dei fondamentali interessi del popolo del Territorio libero». Questa importante dichiarazione tripartita, che riaccende le speranze degli istriani, perde peso con lo strappo di Tito da Stalin e il segreto avvicinamento degli alleati a Belgrado in funzione anti sovietica. L’8 ottobre 1953, Inghilterra e Stati Uniti annunciano l’intenzione di lasciare la Zona A.
Un anno più tardi, il Memorandum di Londra sancisce: «In vista del fatto che è stata constatata l’impossibilità di tradurre in atto le clausole del trattato di pace con l’Italia relative al Territorio libero di Trieste, gli angloamericani si ritirano. I governi italiano e jugoslavo estenderanno immediatamente la loro amministrazione civile sulla zona per la quale avranno la responsabilità». Ovvero l’Italia riacquista Trieste e Tito si impossessa della Zona B. 13 Verità infoibate. Le vittime, i carnefici, i silenzi della politica La perdita definitiva di quest’ultimo lembo d’Istria viene siglata alle 18.30 del 10 novembre 1975, a Osimo, uno sconosciuto paese delle Marche. Il ministro degli Esteri italiano, Mariano Rumor, firma il trattato che chiude le questioni territoriali con Belgrado assieme a Milos Minic, vice primo ministro jugoslavo. Con pochi colpi di penna, dal ‘47 a Osimo, sono andati perduti 219 città e paesi ita- liani e di un territorio di quasi 10.000 chilometri quadrati, che si estende fino al Carnaro e a Zara, sono rimaste all’Italia solo Gorizia e Trieste con un retroterra di 695,70 chilometri quadrati. Profetiche si sono rivelate le parole del parlamentare triestino Fausto Pecorari, già internato a Dachau dai nazisti che, intervenendo in aula contro la “pace ingiusta” del 1947 dichiarava: «Con questo trattato la civiltà italiana della sponda orientale dell’Adriatico sparirà, come è sparita in Dalmazia».
di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto – 06/06/2021
Fonte: InsideOver
Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver.
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CAUSALE: Reportage Goli Otok
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