La Colonia Fara di Chiavari, di recente tornata a offrire un riparo improvvisato a immigrati e senzatetto, dopo la guerra ha ospitato profughi giuliani e dalmati: si chiamava Campo 72, e dopo il 10 febbraio 1947 era diventata uno dei rifugi degli italiani in fuga da Pola e Fiume. Ileana Slivich è qui arrivata soltanto nel ‘52, trovando famiglie intere che nell’ex Colonia vivevano ormai da anni. A separarle una dall’altra, nei dormitori, solo coperte malamente issate con fili di ferro, nel tentativo di ricreare una precaria intimità tra nuclei familiari, tra sconosciuti accomunati da uno stesso destino.
La signora Slivich aveva 9 anni quando il papà, tecnico specializzato del silurificio Whitehead, riuscì a ottenere il permesso per varcare il confine. Oggi, la figlia quasi rimpiange quella scelta: «Abbiamo perso tutto, soprattutto le nostre radici e la nostra identità». A Fiume frequentava la scuola italiana, in famiglia si parlava dialetto e il croato lo conosceva bene, e lo utilizza ancora oggi per comunicare con i parenti rimasti in Croazia: «Andiamo a trovarli ogni anno, è rimasto un rapporto molto forte», racconta la donna, ormai lavagnese d’adozione. Qui, l’ironia della sorte la portò ad abitare fianco a fianco con un italiano dal cognome slavo, diventato poi suo marito.
Giorgio Liubicich ha una storia simile a quella della moglie Ileana: il padre gestiva a Fiume una trattoria, ma nel ’47 decise di non sottostare al regime di Tito e lo portò in Italia, insieme con la sorellina di appena un anno: «Era un batuffolo in una cesta di vimini», ricorda lui. Il 14 e 15 giugno di quest’anno si è svolto a Fiume (oggi Rijeka) il primo raduno internazionale dei cittadini fiumani, e ai coniugi Liubicich sarebbe piaciuto molto partecipare. Non vogliono entrare in questioni politiche, ma dicono: «Siamo contenti che la Croazia entri in Europa, anche se per loro non sarà facile. Stanno puntando giustamente sul turismo, visto che hanno spiagge bellissime e offrono tanti servizi. Anzi, forse Lavagna dovrebbe prendere esempio da loro».
Elda Baruffaldi, invece, non ricorda molto di quei primi anni di vita in fuga: «Ero piccolissima, mio padre lavorava in un albergo ad Abbazia, in provincia di Fiume, e aveva dovuto abbandonare tutto, anche i terreni che aveva appena acquistato per costruire la nostra casa». Via di corsa, per sfuggire alla foibe: «Siamo stati nei campi di Padova e Mantova e infine siamo arrivati qui, prima a Leivi, poi a Lavagna, poi a Chiavari».
Eloisa Moretti Clementi
www.ilsecoloxix.it 1 luglio 2013
Un’immagine emblematica della Colonia Fara di Chiavari, così come si presenta oggi
(foto Giovanna Santinolli / www.flickr.com)