L’Italia e gli italiani hanno il dovere di accogliere con generosità e in condizioni di dignità migliaia di immigrati che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste nella speranza di una vita migliore. Lasciano paesi in guerra.
Anche i profughi dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia hanno lasciato una patria devastata dalle guerra e dagli odi, perseguitati ed emarginati nella loro terra natale, costretti all’esodo per restare italiani come le generazioni autoctone che li avevano preceduti per secoli.
Furono accolti nei campi-profughi in oltre 250.000. Gli altri 100.000 si arrangiarono da soli presso parenti e amici. Insieme a loro c’erano gli sfollati di Cassino, di Anzio, di Livorno, di Ortona. Questi ultimi prima o poi tornarono nelle loro città per ricostruire le loro case. I giuliano-dalmati rimasero nelle baracche perché la loro terra non era più «Italia», convivendo uno accanto all’altro avvocati e operai, commercianti e contadini.
Solo i militari in servizio e i dipendenti pubblici di un certo grado riuscirono dopo qualche mese a liberare le mogli, i figli, i genitori anziani dal disagio dei campi. Otto o dieci in appartamenti di 60 mq., ma sempre una «casa» era.
Gli altri rimasero nelle baracche e nelle camerate di caserme abbandonate per anni interi, andando in fabbrica a lavorare o a scuola a studiare o insegnare tacendo ai compagni la loro condizione di profughi, per dignità e l’amor proprio di essere bravi operai, bravi studenti, bravi insegnanti, bravi uscieri. Come il vecchio spalatino che al Palazzaccio di Roma mi salutava la mattina : «Bon giorno, sior giudice. Xe caligo ancùo.» (Buon giorno… oggi c’è foschia). Abitava nel campo-profughi sulla Laurentina.
C’è gente rimasta nei campi-profughi dal 1944-45 fino al 1958-59. Come lo «scugnizzo» che nel 1959 mi fece da guida turistica a Caserta Vecchia. Mi illustrava la cattedrale, parlando di archetti pensili, lesene, rosoni. Sentendo un accento familiare gli chiesi : «Ma tu non sei di qui.» «No, signore, sono di Zara e anche noi abbiamo una cattedrale così.» Gli amici che erano con me rimasero commossi. «Viviamo in campo-profughi – aggiunse – mio padre lavora in officina e io faccio la guida per portare qualche soldo in famiglia» Gli altri scugnizzi locali confermavano il suo racconto con i loro visi duri di dodicenni.
Così vivevano i profughi giuliano-dalmati negli anni Cinquanta e Sessanta.
Nessuno sulla stampa si occupava delle loro condizioni. Perché loro non protestavano, non insorgevano nei recinti, non bruciavano materassi e suppellettili. Italiani fra italiani – che come tali non li riconoscevano – volevano farsi onore per ricostruire il Paese e riportarlo alla dignità di una grande nazione.
Avevano diritti, ma conoscevano i loro doveri ed erano grati ad una patria – spesso ingrata – che comunque era il loro paese e bene o male li aveva accolti.
Gli immigrati di oggi vengono da altri continenti, da altre culture ed è naturale che fatichino ben più di noi, mezzo secolo fa, ad adattarsi alla realtà italiana. Proprio perché ci sono passati, gli esuli giuliano-dalmati hanno per loro tutta la comprensione che meritano.
Vorrebbero soltanto che da un lato gli italiani ricordassero – non come certi amministratori della Capitale – con quanta compostezza i giuliano-dalmati hanno affrontato la loro condizione di rifugiati, dall’altro che gli immigrati extra-comunitari di oggi avessero un minimo di gratitudine e di rispetto per le leggi di un Paese che, primo fra tutti in Europa, li accoglie con la generosità dei suoi marinai, dei suoi finanzieri, dei suoi volontari.
Auguriamo al ministro Cécile Kyenge, che dimostra con il suo impegno di «nuova italiana» di avere una percezione corretta della difficile realtà che deve affrontare, di raggiungere gli obiettivi che si propone e chiediamo a tutti gli italiani di aiutarla dimostrando quella grandezza d’animo, senza pregiudizi e discriminazioni, che dovrebbe caratterizzare la nostra nazione.
Lucio Toth, vicepresidente FederEsuli
23 agosto 2013