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Dall’Istria alla Toscana la bimba nel buio di un convento (Il Piccolo 03dic12)

Questa è la storia di Maria Luisa Bettini, che nasce a Trieste il 13 luglio 1933. Suo padre, Ezio, è un finanziere, e forse avrebbe anche sposato sua madre se non avesse scoperto che lei si vedeva con un altro, un uomo che lei avrebbe poi conosciuto come lo zio Ettore. Nel 1938, all’età di cinque anni, si trasferisce con la madre a Milano. Suo padre le ha dato il nome, ma non vuole sapere niente di lei né di sua madre. Durante la guerra, non appena le prime bombe cominciano a cadere su Milano, lei e la madre sfollano a Montona d’Istria.

 

Nel ’43, quando la guerra devasta anche l’Istria, si trasferiscono a Pidercoli, sull’Appennino Tosco-Emiliano, il paese di suo padre. Sono sette case in tutto, con altrettante famiglie, dieci pecore, due capre e un maiale per famiglia. Le persone hanno strani nomi, si chiamano Armate, Iacopo, Amos, Assalonne, Aladino, Castruccio. Lì si trova bene, la vita è legata alle stagioni, tutti sono più o meno parenti e tutti lavorano con tutti: raccolgono le castagne, pascolano le pecore, tagliano la legna. La sera si radunano nella casa della nonna per recitare il rosario, e ognuno racconta i fatti di cui è venuto a conoscenza.

 

Quando la incontrano tutti dicono «tu sei la figlia di Ezio». Un giorno arrivano i soldati americani. Sua madre si innamora di uno di loro e per seguirlo la trascina con sé a Calenzano, in Toscana. Dopo un anno intero passato a Calenzano la porta a Firenze, e la consegna ad alcuni uomini che hanno un camioncino. Li paga, dà loro un indirizzo e una lettera da recapitare alla sorella Eufemia, a Roma. «Mi raccomando, fai la brava», le dice la madre prima di sparire fra le strade polverose di Firenze. Viaggiano con il camioncino tutta la notte. Ogni tanto vengono fermati a un posto di blocco, ogni volta c’è un parlottare e un passaggio di merce, poi ripartono. Lei ha tanto freddo e tanta paura, gli occhi sbarrati sulla strada buia, cerca di resistere al sonno. Immagina che quegli uomini possano ucciderla e gettarla in un fosso. In tarda mattinata arrivano a Roma. Gli uomini la consegnano come un pacco alla zia Eufemia, che abita con il marito in una camera ammobiliata dietro Porta Maggiore. La zia, che è incinta, la guarda con enorme sorpresa. Anche zio Gino, che è di Padova e campa con lavoretti da elettrotecnico, appena la vede comparire esclama: «E ’desso come femo anco ’co a tosa?».

 

Qualche settimana dopo nasce Gianni, il cuginetto. Lei è emozionata, la prima volta che la zia le chiede di mettergli le scarpette di lana, dopo averle infilate gliele toglie di nuovo, per essere sicura di non avergli rotto i piedini. Roma le piace, non ci sono macerie, e soprattutto le piace stare con gli zii e il cuginetto. Nell’estate del 1945, una volta liberata anche l’Italia del Nord, zio Gino decide di tornare a Padova. Impiegano otto giorni. Il treno sembra un forno. Solo la notte, quando è in movimento, c’è un po’ di sollievo. Ogni pochi chilometri il convoglio si blocca, e la zia approfitta per cercare una fontanella e lavare i pannolini di Gianni. Attraversano l’Italia devastata dalla guerra, e quando arrivano a Padova, in un podere a Cornegliana dove vivono l’anziana madre di zio Gino, il fratello con la moglie e loro due bambine, appare subito chiaro che lei lì non può restare.

 

La mandano in collegio, ma dopo qualche mese non potendo più pagare la retta la rimandano da suo padre, che adesso vive a Genova. Ma papà Ezio ha altri programmi, così la riporta a Pidercoli dalla nonna e se ne torna a Genova. Lì, a Pidercoli, hanno già preso accordi con le suore dell’Eremo di Santa Maria alla Sambuca, a Collesalvetti, tra le colline livornesi. Ha tredici anni quando suor Adele la prende in consegna, la porta nel dormitorio del convento a posare le sue cose e poi in chiesa dove sono radunate le altre bambine. Due hanno la sua età, le altre sono più piccole. Hanno tutte un’espressione mite, come quella di cuccioli. Nei mesi successivi, capisce che ognuno deve fare i conti con la sua solitudine.

 

Scopre i sotterranei del convento. E una vecchia cisterna, uno stanzone scavato nella roccia con una grotta piena d’acqua dove si accede attraverso un portoncino in ferro e una scaletta di pietra. Sarà per due anni il suo rifugio segreto. Qui nasconde i suoi tesori: un libro (”Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”), una scatola di scarpe con dentro una bambolina di celluloide con i suoi vestitini e una piantina di garofani, che innaffia ogni giorno, e cresce nonostante l’oscurità. Quei fiori sbocciati nel buio la riempiono di gioia, le dicono che il mondo, in fondo, non è sempre così sporco. Non le piace confessarsi, ma le suore la obbligano. Di solito c’è don Evangelino, il pievano della Sambuca. È giovane e ci tiene a dire che è stato cappellano militare. Ma un giorno entra in confessionale quando c’è don Giulio, parroco di una frazione vicina. «Beneditemi, padre, perché ho peccato», dice come sempre. Il prete le chiede quali peccati ha commesso. Recita le solite risposte di sempre: «Ho risposto male a suor Modesta, ho chiacchierato in chiesa, ho fatto un dispetto a una compagna». Sente don Giulio muoversi oltre la grata. Dopo un attimo di silenzio le chiede: «Ti piace guardarti?». Lei non sa cosa rispondere. «Le suore dicono che a specchiarsi si vede il diavolo», dice. Don Giulio insiste: «Intendo dire, se ti guardi quando ti spogli o quando fai il bagno». Sente il prete che respira rumorosamente. Non sa che rispondere. Dice: «Beh, sì». Dopo una pausa, con la voce arrochita don Giulio le chiede: «E ti tocchi?». Il suo respiro è diventato affannoso. Adesso lei è arrabbiata, ne ha abbastanza. Dice: «No!», in maniera brusca.

 

Il prete avverte la sua irritazione, e si sbriga a borbottare le frasi di rito: «…e per penitenza tre Pater, Ave e Gloria». Corre sulla terrazza. È infuriata. La sua amica Maria si avvicina e le dice: «Lo so perché sei arrabbiata». «Ah sì? E sarebbe?». «Perché il prete si prende il suo gusto nel confessionale», risponde Maria. «E che vuol dire?». Maria glielo spiega per bene. Quando ha finito lei esclama: «Ma insomma! Non ci si può fidare neanche dei preti!». Un giorno scopre una grande soffitta, vicino alla torre campanaria. Dentro, una gran confusione di cose antiche accatastate alla rinfusa, coperte di povere e ragnatele. Vede vecchi orologi a pendolo, zoppicanti, alcuni senza lancette. La loro muta immobilità la spaventa. Sono appoggiati al muro, sembrano stanchi di una stanchezza vecchia e senza speranza. Ci sono anche enormi clessidre, le più grandi che abbia mai visto. «Sembrano dormire di un sonno magico – pensa – per loro il tempo non è più trascorso da quando l’ultimo granello di sabbia è filtrato dall’uno all’altro vaso».

 

Due anni dopo, invece, per lei il tempo si rimette in moto. A 15 anni si lascia alle spalle il convento e i suoi segreti. Andrà a vivere a Genova, poi a Firenze. A 27 anni si stabilisce a Roma. Farà molti lavori: cameriera in un pensionato di suore, lavorante in un maglificio, segretaria in uno studio medico, controfigura a Cinecittà. Nel 1964 si sposa, e dal matrimonio nasceranno due figli. Oggi, a 79 anni, quando cura le sue piantine di garofani pensa che il tempo, a volte, può essere generoso con chi è stato tanto solo.

 

Pietro Spirito

“Il Piccolo” 3 dicembre 2012

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