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De Gasperi e l’esodo istriano (Corriere Irpinia 16 mar)

Sono passati ben sessantotto anni dall’inizio di quel tragico esodo che coinvolse la popolazione dell’Istria e della Dalmazia avverse all’invasione jugoslava del 1943-1945. Dal Trattato di Pace firmato il 10 febbraio del 47 derivarono conseguenze devastanti per il riassetto territoriale italiano. L’integrità del nostro Paese fu messa a dura prova da diverse annessioni: ad occidente Briga e Tenda passavano alla Francia, ad oriente quasi l’intera Venezia Giulia e Zara in Dalmazia venivano a far parte della Jugoslavia provocando un fenomeno migratorio di rilevante portata che colpì circa 300.000 nostri connazionali mentre la città di Trieste diventava un protettorato militare anglo-americano. Di quel disastro ingiustamente Alcide De Gasperi si assunse gran parte delle responsabilità, criticato aspramente per essersi presentato al tavolo delle trattative “col capo cosparso di cenere e il rosario in mano”. Eppure il leader Dc nel discorso tenuto nell’agosto del 1946 aveva precisato che malgrado l’Italia si sentisse colpevole per il fenomeno fascista degli anni precedenti, respingeva il carattere punitivo del trattato.

Il periodo era cruciale ma gli interessi politici anziché concentrarsi sulle emergenze prioritarie, cioè l’Istria e la Dalmazia avevano occhi solo per l’Eritrea, la Somalia e la Libia. In particolare i comunisti che nel frattempo avevano ideato anche un partito africano, appoggiavano su guida di Ruggiero Grieco, una politica coloniale ritenuta fondamentale per la nostra economia facendo finta di dimenticare un terzomondismo antimperialista che pur avevano tanto pubblicizzato in passato. Lo stesso Palmiro Togliatti che nel 44 aveva seguito le indicazioni staliniste mise a disposizione del generale Tito la folta schiera di partigiani del Pc, lottando per l’occupazione della Venezia Giulia da parte del nemico Jugoslavo piuttosto che dagli alleati. Mostratosi all’inizio titubante ed incerto, il capo del partito comunista italiano prese presto posizione come Vicepresidente del Consiglio nel governo Bonomi, si doveva far spazio agli uomini di Tito pena anche una possibile guerra civile. Come dimenticare il famoso manifesto diffusosi a Trieste che esprimeva palesemente l’opinione del leader PC: “Lavoratori triestini! Il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con esse nel modo più stretto”. In una lettera indirizzata al capo del Governo Togliatti argomentava: “Quanto alla situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da darsi è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti.

Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse.” Altri uomini politici tentarono di porre rimedio a questa scelta infelice che dimostrava un certo dilettantismo in tema diplomatico e soprattutto mal celava un innegabile tradimento degli interessi nazionali. Don Luigi Sturzo prese parte alla questione proponendo come simbolo di protesta un boicottaggio dei plenipotenziari inviati alla firma della pace, il filosofo Benedetto Croce si rifiutava di votare alla Costituente la ratifica degli accordi di Parigi; lo storico Federico Chabod, partigiano in territorio valdostano aveva impedito un pericoloso progetto annessionistico partito dalla Francia e sostenne il governo de Gasperi consigliando di utilizzare lo strumento dell’autonomia regionale per proteggere i nostri confini orientali maggiormente esposti alle mire espansionistiche straniere.

Il pensatore Carlo Antoni in contrapposizione alla pressante aggressività dei comunisti titini, scrisse un memoriale che conteneva le ragioni etniche, storiche e culturali per cui si doveva combattere contro l’annessione di Trieste e di parte del Goriziano e dell’Istria come era d’altronde suggerito dalla stessa linea Wilson del 1919. Gaetano Salvemini fu uno dei portavoce dell’autodeterminismo secondo il quale i popoli slavi ed italiani avrebbero dovuto scegliere volontariamente la propria patria attraverso liberi referendum. Tra i maggiori storici del ‘900 Salvemini fin dall’inizio aveva denunciato la politica espansionistica di Tito e la spalla a lui fornita da Togliatti. Nel febbraio del 1945 rispondendo ad un articolo pubblicato su L’Unità propenso all’inclusione del confine orientale, Salvemini tacciava gli stalinisti italiani di voler buttare a mare i propri connazionali, di costringerli ad andarsene in casa del diavolo. Detto fatto, dopo soli due anni ebbe inizio il tragico esodo istriano, una delle pagine più atroci della nostra storia.

Dai porti dell’Istria e della Dalmazia partirono navi piene di un popolo sofferente che andava incontro ingiustamente ad un destino inaspettato e doloroso. Subirono anche la beffa di essere chiamati fascisti perché scappavano dal paradiso dell’eguaglianza e della fraternità marxista. E la cosa più crudele è che dei loro morti oggi a stento se ne conserva la memoria. Vari libri sono stati scritti sulla questione dell’occupazione jugoslava, delle foibe e dell’esodo istriano tra cui “Profughi” di Gianni Oliva, “Il lungo esodo” di Raoul Pupo e “Il dolore e l’esilio” di Guido Crainz. Testimonianza corale di una profonda delusione, di una cocente amarezza, della sofferenza patita dagli italiani di quelle zone di confine. Un popolo abbandonato, perseguitato, non tutelato nei suoi diritti, dimenticato da un’Italia impegnata politicamente altrove. Come se quella non fosse Italia. Era troppo semplice fare di De Gasperi un capro espiatorio di una situazione che non si poteva evitare, non c’era nulla da negoziare con gli alleati vincitori.

Il politico trentino gestì bene la delicata questione facendo attenzione ai comunisti presenti nelle riunioni della nostra ambasciata, che prontamente riferivano tutte le mosse e le intenzioni ai sovietici e quindi indirettamente agli jugoslavi. L’Italia era distratta su altri fronti mentre il popolo istriano invano chiedeva disperatamente aiuto. Il nostro paese in maniera sconsiderata e in nome di una presunta retorica resistenziale si poneva dalla parte del vincitore della guerra. Come ha ben analizzato Rosario Romeo “la resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato”. Inoltre, quando la Jugoslavia ebbe problemi con Stalin, l’Occidente volle trattarla bene nonostante la tragedia, commessa da Tito, di Goli Otok (l’isola Calva) fosse paragonabile per orrore agli scempi nazisti e staliniani. Di questi orrori si parla poco, quasi nessuno conosceva fino a poco tempo fa la vicenda delle foibe.

Ci sono stati gli infoibati, gli espropriati, i martirizzati italiani tutti ad opera del generale Tito ma d’altro canto ci furono anche le vittime slave di un’occupazione italiana che non fu meno violenta. Crainz lo spiega bene nelle testimonianze di un cappellano militare: “In tutte le abitazioni della vasta conca non si è trovata anima viva. Fino ad oggi di tutti i villaggi che abbiamo incontrato uno solo non è stato bruciato”. Nell’agosto del 1942 “in seguito all’uccisione da parte di elementi ribelli di un maresciallo dei carabinieri, un reparto del nostro esercito dà alle fiamme l’intera frazione di Ustie di Aidussina composta di 81 abitazioni con quanto esse contenevano. Tra gli uomini otto vengono fucilati”. Riusciva intollerabile la posizione dei comunisti che solidarizzavano con gli infoibatori in quanto si erano accaniti contro i fascisti. Come scrive Raoul Pupo “alla stazione di Bologna un treno di profughi rimase bloccato per ore sui binari per le proteste di alcuni ferrovieri che non permisero lo svolgimento delle operazioni di soccorso e approvvigionamento.

Quei bravi ferrovieri non consentivano nemmeno che qualcuno scendesse dai vagoni per prendere acqua alle fontanelle, e una testimone ricorda che la madre le disse ‘vai tu che forse, visto che sei una bambina, ti fanno andare’…”.

I fanatici sono stati capaci di tutto, di negare l’acqua ai profughi assetati e ora di dimenticare una giornata che va assolutamente recuperata dalla nostra memoria.

Fra.Fe

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