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Diritti ancora negati a 40 anni dal Trattato di Osimo – 13feb16

 

La prestigiosa cornice della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale, un attento pubblico non solo di addetti ai lavori, ma anche di studenti interessati alle relazioni internazionali, un partecipato dibattito e relazioni ampie e dettagliate hanno caratterizzato lunedì 11 gennaio 2016 il convegno “A quarant’anni da Osimo. Il trattato Italo-Jugoslavo del 10 novembre 1975”, organizzato dall’Associazione Coordinamento Adriatico.

Sostenitrice dell’iniziativa è stata la SIOI stessa, il cui Vicepresidente Umberto Leanza, anche relatore dell’assise, ha fatto gli onori di casa in rappresentanza del Presidente, On. Franco Frattini, impossibilitato da sopraggiunti impegni a presenziare come previsto. Il primo saluto istituzionale è stato formulato dal Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Benedetto Della Vedova, il quale ha fra l’altro rammentato la continuità del Trattato di Osimo rispetto al memorandum di Londra del 1954, che aveva posto fine al fittizio Territorio Libero di Trieste, e la prosecuzione negli Accordi di Roma del 1983, da cui sarebbe promanato un indennizzo forfettario inerente i beni abbandonati della Zona B del TLT. L’esponente governativo ha ricordato la risposta della piazza triestina contro Osimo, sfociata nella nascita del fenomeno politico della Lista per Trieste, ma anche l’importanza del Magazzino 18 come luogo simbolo per comprendere le violazioni dei diritti umani patite dagli esuli istriani, fiumani e dalmati.

Prima di introdurre i relatori, Davide Lo Presti, moderatore dell’incontro in rappresentanza di Coordinamento Adriatico, ha comunque ricordato l’impegno dell’On. Frattini riguardo la causa degli esuli, sia in guisa di Commissario Europeo sia come Ministro degli Esteri, con particolare riferimento ad una più equa definizione dell’indennizzo ed alla censura nei confronti della pellicola slovena provocatoriamente intitolata “Trst je naš”, il grido di battaglia delle formazioni partigiane di Tito in marcia verso Trieste nella primavera del 1945.

Il professor Giuseppe Parlato, docente di Storia Contemporanea all’Università degli Studi Internazionali di Roma, ha suddiviso il periodo intercorso fra il già ricordato Memorandum di Londra e la firma di Osimo in due periodi. Il primo si estende fino al 1964 ed è stato caratterizzato dai governi centristi a Roma, i quali hanno affrontato questioni economiche con Belgrado (accordi di Udine del ’55) e relative ai diritti di pesca nell’Adriatico, con la riserva mentale di rivendicare la continuità della linea etnica italiana lungo il litorale della ex Zona B. È quindi cominciata la fase storica del centrosinistra, a partire dal governo organico allargato ai socialisti, il cui nuovo corso è ben rappresentato dalla visita del capo del governo Aldo Moro a Belgrado, ricambiata in seguito dall’omologo jugoslavo. La politica estera risultò meno allineata agli Stati Uniti, ai quali si contestavano la guerra nel Vietnam e la posizione nettamente filoisraeliana nella questione medio-orientale, laddove i socialisti vedevano nell’autogestione economica della Jugoslavia di Tito un modello interessante sul quale modellare la propria azione di governo. Dall’altra parte del confine, però, bastò l’adunata degli Alpini a Treviso nel 1967 per scatenare le proteste: Tito faceva la voce grossa per nascondere le preoccupazioni suscitate dalla crisi economica che attraversava il paese, dalle agitazioni in Kosovo e Macedonia, nonché dagli esiti della Primavera di Praga, per cui temeva che la dottrina Brežnëv della sovranità limitata potesse venire applicata anche per “stabilizzare” la Jugoslavia. Gli eventi cecoslovacchi causarono ripercussioni pure all’interno del PCI, il cui vicesegretario Enrico Berlinguer (il segretario generale Luigi Longo era malato) espresse contrarietà e si dissociò. Sono però gli anni in cui Willy Brandt lanciò la Ostpolitik e Moro guardò parimenti a est, sostenendo in maniera sorprendente di non avere rinunciato alla Zona B, ma di essere prioritariamente interessato al consolidamento della Zona A, la cui appartenenza all’Italia ormai nessuno osava mettere in discussione: lo statista pugliese sosteneva tuttavia che alle Nazioni Unite risultava ancora aperto un fascicolo riguardante il TLT… La sua priorità in effetti fu il coinvolgimento del PCI nell’area di governo allo scopo di allargare il centrosinistra, pur sapendo che sulla questione del confine giuliano doveva confrontarsi con coriacei baluardi di italianità quali il quotidiano triestino “Il Piccolo” diretto da Chino Alessi, la Curia del capoluogo giuliano, la destra ed alcuni esponenti di centro. Il 28 novembre 1970 “Il Tempo” di Roma affermò che Moro aveva rinunciato alla Zona B, ma il capo del governo replicò sostenendo che l’Italia non avrebbe rinunciato all’interesse nazionale, una formula sibillina che però bastò a scatenare la richiesta di chiarimenti da parte jugoslava, alla quale si assicurò che si trattava di un discorso generale e non strettamente confinario. Parlato ha ritenuto inspiegabile la paura che l’Italia ebbe nei confronti della Jugoslavia, rispetto alla quale poteva vantare una netta superiorità economica e tecnologica: si pagò lo scotto del giudizio benevolo nei confronti del governo jugoslavo in nome dell’antifascismo. Già nel 1972 in ambienti comunisti italiani e francesi si vociferava che ormai la questione era chiusa con la cessione della Zona B, mentre il rinunciatario Moro aveva attivato canali sotterranei di contatti facenti capo al suo fedelissimo Eugenio Carbone, Direttore Generale del Ministero dell’Industria. Il 29 marzo 1975, giorno di Pasqua, Berlinguer, già ragionando nell’ottica governativa che lo porterà l’anno seguente ad adottare la non sfiducia, era ospite di Tito a Brioni per parlare di eurocomunismo e di risoluzione della diatriba confinaria. La firma segreta dell’accordo in effetti è datata 6 agosto 1975, un mese e mezzo dopo le elezioni amministrative che avevano visto un grande risultato del PCI, presentatosi a Trieste per la prima volta con la sigla bilingue PCI-KPI, ed una battuta di arresto della DC che condusse alla conclusione della segreteria di Amintore Fanfani, il quale non aveva mai condiviso la linea Moro nei rapporti con Belgrado. Dopo essere stato presentato segretamente a Stati Uniti, Inghilterra e Francia, il testo dell’accordo approdò nell’aula a ottobre per venire approvato dal 55% dei Deputati e dal 65% dei Senatori, cifre ben più basse di quello che era sulla carta il peso di una maggioranza che teoricamente andava da Democrazia Proletaria al Partito Liberale Italiano: molti parlamentari non parteciparono al voto ed il ministro plenipotenziario per la definizione del confine Camillo Giuriati si era già dimesso l’11 settembre 1975. Si trattò insomma di un percorso “strano ed irrituale” che generò, come sostiene anche Sergio Romano, “un accordo inutile”, poiché grandi trattative portarono a conclusioni inferiori alle aspettative e soprattutto nessuno capì che, una volta morto l’anziano Tito, la Jugoslavia sarebbe implosa e si sarebbero aperti ben più ampi margini di trattativa.

L’On. Carlo Giovanardi ha quindi auspicato l’uguaglianza dei diritti per tutte le minoranze che insistono negli attuali confini che attraversano la Venezia Giulia, mentre il Senatore Maurizio Gasparri ha ricordato la strenua opposizione che condusse all’epoca il Movimento Sociale Italiano, a partire dalle organizzazioni giovanili in cui allora il parlamentare militava, nei confronti di Osimo, considerato un atto di resa.

Di ampio respiro sulla tematica dei beni abbandonati, non solo nella Zona B, ma in tutte le terre cedute alla Jugoslavia, è stata la relazione del prof. Umberto Leanza (già docente di Diritto Internazionale presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata), già membro di un’apposita commissione istituita dall’allora titolare della Farnesina Renato Ruggiero. Anche se la prima visita a Lubiana e a Zagabria per confrontarsi con le controparti slovena e croata nacque sotto una cattiva stella, poiché si svolse l’11 settembre 2001 e venne sospesa di fronte ai terrificanti eventi di quel giorno, la commissione tecnica Esuli-Ministero degli Esteri voleva prendere in considerazione tutti quei beni che i precedenti incontri bilaterali italo-jugoslavi avevano trascurato. Passati al setaccio gli archivi ministeriali e delle associazioni della diaspora giuliano-dalmata, si svolsero le audizioni di esperti provenienti dalla Slovenia e dalla Croazia, tenendo come punto di riferimento le disposizioni del Trattato di Pace del 1947 che garantivano i beni degli optanti anche con riferimento alle requisizioni precedenti al trattato stesso. Dal 1949 al 1983 Roma e Belgrado si erano confrontate in sette occasioni, ma fin dai primi accordi la Jugoslavia aveva violato i trattati di pace in materia di beni, poiché già prima del passaggio di sovranità aveva incamerato proprietà di cittadini italiani, aveva agito in maniera distorta e truffaldina riguardo le terre annesse nel 1947 ed altrettanto avrebbe poi fatto nei confronti della Zona B del TLT. L’indennizzo forfettario pattuito non aveva tenuto in considerazione quasi 700 beni lasciati in libera disponibilità per cause di forza maggiore ed incamerati dall’Istituto della Proprietà Sociale. Slovenia e Croazia, in guisa di Stati successori, avevano denazionalizzato tali beni, ma solamente a beneficio dei propri cittadini, trascurando le legittime rivendicazioni di ex proprietari stranieri, violando così il diritto internazionale generale e comunitario, nonché la Convenzione europea dei diritti umani, con particolare riferimento ai diritti di proprietà. Neppure le tombe degli italiani erano state risparmiate, poiché molte salme erano state traslate in fosse comuni ed i sepolcri erano stati distrutti ovvero concessi a terzi. Le difficoltà frapposte al libero esercizio delle opzioni previste dal Trattato di Parigi costrinsero molti istriani a fughe clandestine ed i loro beni finirono espropriati dagli enti dello Stato jugoslavo con grave violazione del diritto internazionale. Tali beni incamerati senza indennizzo furono oggetto di misure ablative generali (avvenute prima del Trattato di Pace, ad esempio nell’ambito della riforma agraria jugoslava) o di provvedimenti ad personam irrogati dai Comitati Popolari, ma ci furono anche casi, in carenza della condizione di optante, di soggetti riparati in Italia o all’estero considerati cittadini jugoslavi fino al 1964, sicché figuravano beni iscritti a nome di esuli o comunque di proprietari che non potevano usufruirne. Detto ancora che le autorità jugoslave violarono fra l’altro le norme che proibiscono di incamerare edifici ancora abitati, Slovenia e Croazia si dimostrarono degni Stati successori nel compiere inadempienze riguardo il versamento degli indennizzi a loro carico. Gli accordi di Roma del 1983, infatti, imposero alla Jugoslavia con riferimento ai beni abbandonati nella ex Zona B il versamento di 110 milioni di dollari in tredici annualità a partire dal primo gennaio 1990: versate le prime due rate dal governo federale, l’implosione della vicina repubblica spostò poi tale onere su Lubiana e Zagabria. Queste ultime si dimostrarono inadempienti nei versamenti a loro carico, tanto da configurare condizioni di nullità degli accordi e conseguente possibile richiesta di restituzioni dei beni in oggetto, il ché era ormai materialmente irrealizzabile, ma c’erano sicuramente i margini per chiedere di rimpinguare l’indennizzo, cosa che lo Stato italiano non fece con adeguata convinzione. Il relatore ha voluto in conclusione dedicare il suo contributo alla memoria della moglie, figlia del comandante dei Vigili del Fuoco di Zara e in precedenza di Spalato: la sua famiglia ha perso nell’Esodo dalla Dalmazia tutto ciò che aveva.

Analogamente sussiste un legame con le terre dell’Adriatico orientale pure per quanto concerne la professoressa Ida Caracciolo della Seconda Università degli Studi Internazionali di Napoli, la cui nonna materna era originaria di Portole e si era trasferita a Trieste prima dell’esodo, mantenendo però in famiglia la memoria dell’Istria. La relatrice ha collegato il Trattato di Osimo alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione avvenuta nell’estate 1975, un’assise capace di creare il clima di collaborazione necessario per avviare a conclusione le intricate trattative. Per quanto riguarda la definizione della frontiera terrestre, la cessione di sovranità da parte italiana affonda le radici nel Memorandum di Londra del 1954, con cui le amministrazioni civili subentravano ai governi militari, per definizione circoscritti nel tempo, laddove a Osimo si definirono puntualmente le acque territoriali. Venne fissato un medium di 29 chilometri in base ad un principio di equidistanza dalle coste, ma la navigabilità non risultava uniforme, essendo sbilanciata a favore del versante jugoslavo: nonostante il diritto internazionale consolidato consentisse rettifiche per addivenire ad una situazione più equa, la delegazione italiana non se ne preoccupò. Ancor più tardivamente (Roma 1983) si regolamentarono i diritti di pesca, ritagliando alcuni benefici a favore dei pescherecci immatricolati in Friuli Venezia Giulia, ma la Slovenia indipendente non volle ereditare tale impegno. Quanto pattuito a Osimo, inoltre, abrogò il Memorandum londinese, ivi compreso lo Statuto delle minoranze, imponendo alle parti di attuare nuove norme parametrandole al defunto Statuto, dando luogo ad un misunderstanding interpretativo in merito all’estensione delle tutele a beneficio delle minoranze non residenti nelle ex Zone A e B. Il fatto poi di essere residenti in un’area in precedenza assicurava automaticamente la cittadinanza, pur garantendo la possibilità di andarsene, laddove con Osimo si concedevano lo svincolo dalla cittadinanza jugoslava e la facoltà di acquisire quella italiana, anche se in termini di diritto la cittadinanza italiana non era mai stata persa e si era verificato un caso di cittadinanza collettiva doppia. Con riferimento agli indennizzi, la docente ha sottolineo come l’articolo 76 del Trattato di Pace, in maniera ineguale, imponesse all’Italia la rinuncia a chiedere le riparazioni: Osimo derogò riconoscendo il diritto all’indennizzo, che la Jugoslavia come ricordato cominciò a corrispondere ratealmente, la Slovenia versò su un conto corrente della Dresdner Bank in Lussemburgo quanto di sua spettanza e la Croazia non erogò alcunché. Bisogna, però, precisare che l’accordo tra Lubiana e Zagabria finalizzato a suddividere quest’onere non risulta valido per il diritto internazionale, in base al quale si richiedeva un accordo trilaterale: l’inerzia italiana è valsa come un silenzio-assenso. L’allieva del professor Caracciolo ha concluso ricordando che una diplomazia efficace potrebbe ancora adire una controversia per violazione degli obblighi pattizi, nonché, stante l’impossibilità della restituito in integrum, riaprire la questione degli indennizzi chiedendo il calcolo degli interessi di mora (principio valido fin dall’accordo russo-turco del 1912 con riferimento ai danni di guerra risalenti al conflitto del 1877-78).

Dopo il messaggio di saluto dello storico e Capo di Gabinetto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali Giampaolo D’Andrea, il senatore Lucio Toth, esponente di spicco del mondo della diaspora giuliano-dalmata, ha aperto una lunga serie di interventi. Il Presidente onorario dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha ricordato che Osimo fu sottoscritto in seguito a pressioni su Aldo Moro e Mariano Rumor provenienti dagli Stati Uniti, i quali volevano dare una boccata di ossigeno all’agonizzante Stato di Tito, destabilizzato dai moti studenteschi di Zagabria del 1970 e dalla riforma costituzionale del 1974, così come nel 1991 giunsero da Germania e Vaticano pressioni per il riconoscimento dell’indipendenza slovena e croata. D’altro canto subito dopo il Trattato di Parigi del 1947 gli USA avevano prestato all’Italia 110 milioni di dollari, somma pari al valore dei beni abbandonati, ma agli esuli nulla è pervenuto. Di fronte a tanta debolezza da parte della diplomazia italiana, Toth si è chiesto se permangano margini di manovra per gli esuli al fine di adire tribunali internazionali nei confronti dell’Italia e degli Stati successori della Jugoslavia.

Una prima risposta è giunta da Antonio Bultrini, docente di Diritto internazionale all’Università degli Studi di Firenze, il quale, dopo aver evidenziato come le disposizioni bilaterali in materia di minoranze siano ormai superate dal diritto comunitario e ricordato che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha rigettato il ricorso degli esuli, ha segnalato la possibilità di interessare le Nazioni Unite della vicenda. Un funzionario dell’Ambasciata slovena in Italia ha quindi tenuto a precisare che dal 2004, anno dell’entrata di Lubiana nell’Unione Europea, i rapporti bilaterali sono migliorati ed il suo Stato ha comunque versato appena possibile quanto ritenuto di sua spettanza in merito agli indennizzi ereditati da Belgrado.

L’esule da Parenzo Alida Gasperini ha suggerito una class action da parte delle associazioni degli esuli oppure azioni legali individuali contro Italia, Slovenia e Croazia per smuovere finalmente le acque, mentre Silvio Delbello, rappresentante di lungo corso della comunità dell’Esodo, ha rimarcato l’inconsistenza della diplomazia italiana riguardo i problemi degli istriani. Suonano come una beffa le esortazioni di Alcide De Gasperi agli italiani affinché rimanessero in Istria in attesa del ritorno dell’Italia, considerato che già nel 1954 avvenne la sostanziale cessione della Zona B: prima di abbandonare tutto gli istriani tuttavia delegarono la Repubblica italiana ad alienare i propri beni alla Jugoslavia, fior di documentazione depositata nei magazzini di Cinecittà attesta le transazioni intercorse fra i due Stati, ma gli esuli ancora attendono di ricevere ciò che è loro diritto. Analogamente Antonio Ballarin, Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati ha ricordato che sono stati infranti tutti i diritti degli esuli, rimasti soli senza la tutela dello Stato italiano, e che alle associazioni dell’esodo va riconosciuto il merito di aver tenuta ancora aperta la questione sui tavoli governativi. L’approvazione della Legge del Ricordo e varie manifestazioni di interesse da parte del Presidente Giorgio Napolitano hanno consentito di far conoscere ad un pubblico più vasto tali problematiche, ma riguardo a Osimo i tempi per rinegoziare o annullare sembrano ormai scaduti, laddove rimane una frattura sulle modalità di indennizzo fra quanti abbandonarono la Zona B del mai costituito TLT e chi lasciò il resto dell’Istria, Fiume e la Dalmazia, generando ulteriore senso di abbandono e di trascuratezza.

Maurizio Tremul, Presidente della giunta esecutiva dell’Unione Italiana, ha evidenziato come il primo censimento jugoslavo dopo Osimo abbia segnato il minimo storico della comunità italiana, laddove nel 1991 al momento della dissoluzione dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume si registravano 25.000 connazionali. All’insegna del motto “andare oltre Osimo” e alla luce della fine della Commissione mista italo-jugoslava, la tutela delle rispettive minoranze non si basa più sulla reciprocità, bensì sul riconoscimento totale. Nato nel Campo Profughi di Padriciano e attuale Presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane, Manuele Braico ha rilevato come le azioni criminali degli emissari di Tito a danno degli italofoni abbiano creato i presupposti per l’esodo; oggi, però, bisogna spiegare agli esuli quali possibilità concrete di risarcimento sussistano (a tal proposito vanno riconosciuti i meriti della Legge sui Torti promulgata dalla Slovenia) e quali siano le prospettive per il futuro. Il terrore delle foibe come presupposto dell’esodo è stato ribadito da Marino Micich, direttore del Museo Archivio Storico di Fiume al Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma: proprio a partire da tale realtà avvenne uno dei primi incontri fra esuli e rimasti nel capoluogo del Carnaro nel 1989.

Aprendo il secondo giro di interventi, il professor Parlato ha riscontrato che a livello storiografico il dibattito si è amplificato e che un sano realismo avrebbe voluto che non si facesse il Trattato di Osimo, limitandosi a chiedere la tutela della minoranza linguistica e dei beni: citando Massimo De Leonardis, luminare della storia dei trattati e della politica internazionale, la classe dirigente italiana dimostrò di non avere interesse alla tutela dell’interesse nazionale. L’atteggiamento remissivo assunto al cospetto di una Jugoslavia declinante è stato l’ennesima dimostrazione che a livello diplomatico assumere una linea morbida non paga.

La Caracciolo ha sottolineato le grandi difficoltà del dopoguerra italiano e le violazioni commesse dall’esercito insurrezionale jugoslavo poi ereditate dalla Repubblica federativa, autrice a sua volta di infrazioni dei diritti di proprietà; d’altro canto ancor oggi sussistono gli estremi per denunciare violazioni di diritti umani e di disposizioni europee. A tal proposito Leanza ha salutato come una trasformazione epocale del diritto internazionale l’entrata in scena degli individui, i quali ormai possono chiamare in causa Stati sovrani al fine di ottenere il riconoscimento dei propri diritti. In certi casi bisogna prima aver esperito tutti i possibili ricorsi interni, ma in altri si può ricorrere al diritto comunitario anche senza previo esaurimento.

Tirando le conclusioni della giornata, Giuseppe De Vergottini, professore emerito di Diritto Costituzionale all’Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna, ha riscontrato un alto valore culturale e scientifico negli interventi tecnici, integrati dalle voci degli esuli, vive ed appassionate. Analizzando la storia dei rapporti italo-jugoslavi, ha riscontrato nella controparte balcanica una tenace politica di affermazione del potere, l’apprensione di nuovi territori senza rispetto per le esigenze minime dei diritti umani, laddove la catastrofe dell’8 Settembre, congiuntamente alla resa incondizionata, all’accettazione dei Trattati di Pace ed al riconoscimento delle responsabilità nell’invasione della Jugoslavia nel 1941, ha condizionato l’atteggiamento della nostra classe dirigente. Venendo al Trattato di Osimo, l’insigne giurista vi ha riscontrato delle debolezze incredibili, a partire dalla futuristica idrovia dell’Isonzo, che avrebbe dovuto collegare il Danubio all’Adriatico, per giungere all’assurdità della Zona economica mista. Come preliminarmente al Trattato di Parigi non furono interpellati i giuliani, così gli esuli non vennero chiamati a collaborare ai successivi accordi bilaterali: nell’imminenza della chiusura degli accordi di Osimo l’associazionismo si era fatto sentire, ma non gli fu chiesta neppure una consulenza. Il pessimo rapporto con le istituzioni avrebbe condotto nel contesto giuliano alla nascita della Lista per Trieste, primo movimento antipartitico e capostipite delle liste civiche, il quale aveva colto fra l’altro che nessun beneficio sarebbe giunto dalla paventata Zona Economica sul Carso, che ben presto sarebbe diventata una porta per l’ingresso di lavoratori jugoslavi a basso costo. Tanto il Memorandum di Londra risultò all’avanguardia nella tutela delle minoranze, tanto Osimo sarebbe stato deficitario nella salvaguardia della frontiera marittima, creando problemi di pescaggio a tutte quelle navi che oggi prediligono lo scalo di Capodistria a scapito del porto di Trieste. Accostandosi alla trattativa bilaterale, inoltre, per gli jugoslavi la sovranità sulla Zona B era intoccabile, laddove da parte italiana permaneva un atteggiamento equivoco che avrebbe condotto all’autoinganno di presentare alla Camera dei Deputati nella traduzione del testo ufficiale la parola boundery (linea di confine) come linea di demarcazione, vale a dire un termine che lasciava margini di ridiscussione. In punta di diritto la Corte Costituzionale nel 1964 ribadiva che la sovranità italiana non era venuta meno né sulla Zona A né sulla Zona B del TLT, riconoscendo il carattere provvisorio e straordinario del Memorandum di Londra, documento anomalo ed eccezionale, tanto che il problema di fondo non era ancora stato risolto né era pregiudicato. La conservazione della sovranità era stata acclarata pure dal TAR del Friuli Venezia Giulia un paio d’anni fa, poiché la mancata nomina del Governatore del Territorio Libero da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non aveva portato alla nascita dello staterello e quindi non era avvenuto un trasferimento di sovranità, la quale risultava soltanto “non esercitabile”. Leanza ha tuttavia precisato che di diverso avviso era stata la Corte di Cassazione, che aveva ammesso il passaggio di sovranità sulla Zona B alla Jugoslavia, come poi confermato a Sezione Unite, laddove la Corte Costituzionale agiva anche a partire da motivazioni di carattere politico e basandosi sul principio dell’effettività. Ancora la Cassazione a Sezioni Unite respinse nel 2013 l’appello inerente la violazione dei dritti di proprietà degli esuli, così come nell’aprile scorso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rigettò per irricevibilità analoga istanza: l’ultima speranza per gli esuli consiste nella Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite.

La vera e propria conclusione dell’intenso pomeriggio è spettata a Davide Rossi, docente di Storia del diritto all’Università degli Studi di Trieste, il quale ha ricordato che nelle sentenze dell’ordinamento interno relative ai beni abbandonati i richiami al diritto comunitario non sono legittimi, mentre da parte europea la dichiarazione di irricevibilità non necessita di motivazione, pertanto i proponenti rimangono nel dubbio su come poter rimodulare la richiesta. In attesa di adire altri organi preposti in cui far valere le ragioni della diaspora giuliano-dalmata, è stato anticipato che gli atti della giornata assieme ad altri contributi scientifici confluiranno in un volume edito da CEDAM.

 

Lorenzo Salimbeni

Responsabile comunicazione ANVGD

 

E’ possibile sentire integralmente la registrazione del convegno sul sito di Radio Radicale

https://www.radioradicale.it/scheda/463361/a-quarantanni-da-osimo-il-trattato-italo-jugoslavo-del-10-novembre-1975

 

 

 

 

 

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