Rubrica lettere a Sergio Romano
Mi accingo a leggere La guerra rivoluzionaria jugoslava di Milovan Djilas, pubblicato dalla Libreria editrice goriziana. Il personaggio è piuttosto noto: fedele a Tito e ai principi del marxismoleninismo nella prima parte della vita e poi transitato nella schiera degli avversari. C’è un saggio di Isaac Deutscher intitolato Eretici e rinnegati che espone casi analoghi, mettendo in prima linea Ignazio Silone e Arthur Koestler e rivolgendo la preghiera a coloro che si accingono a cambiare bandiera abbandonando quella rossa di farlo senza svillaneggiare i vecchi alleati. I casi sono tanti e probabilmente, da una delle ultime lettere scritte da Gramsci, si potrebbe presumere un suo pentimento e un prossimo abbandono che la morte prematura ha impedito. Ammesso che di tutti i casi se ne voglia dare una univoca spiegazione, questa deve essere di carattere economico o rientra nella natura della volubilità umana?
Antonio Fadda
Caro Fadda, Nella maggior parte dei casi, soprattutto quando il dissidente prende posizione contro il partito o il sistema politico di cui aveva fatto parte, le ragioni sono intellettuali e morali, non venali. Sino all’inizio degli anni Cinquanta Djilas era stato un combattente e un «credente», con tratti d’intransigenza e durezza che lo rendevano, se mai, ancora più fedele al credo comunista dei suoi compagni. Il dubbio cominciò a torturarlo quando si accorse che i vincitori della guerra rivoluzionaria, fondatori della Jugoslavia comunista, stavano diventando una casta. Erano affamati di cariche, di privilegi, di sfarzose uniformi. Contemporaneamente i frequenti contatti con l’Urss gli rivelavano l’esistenza di un apparato sovietico cinico e brutale. Fu scandalizzato, in particolare, quando scoprì che il grande alleato stava creando in Jugoslavia una rete di spie e d’informatori reclutati fra insospettabili membri del partito come la guardia del corpo di Tito. Per un certo periodo Djilas trovò rifugio nella speranza che quella fosse una fase di passaggio, la necessaria transizione da un arcaico sistema capitalista a una moderna democrazia popolare. Per meglio combattere contro le proprie inquietudini e frustrazioni raddoppiò i suoi sforzi e il suo impegno politico. Ma nel momento in cui ogni illusione gli parve inutile, non esitò a rivelare i suoi sentimenti e la sua amarezza in una serie di articoli pubblicati su Borba, quotidiano della Lega dei comunisti. Nella sua prefazione all’autobiografia di Djilas (Se la memoria non m’inganna, Il Mulino 1987), Renato Mieli ricorda che quegli articoli provocarono una reazione di sconcerto nell’universo comunista e che qualcuno volle persino credere a una deliberata, oscura manovra di Tito. Ma il maresciallo capì di essere il principale bersaglio della campagna moralizzatrice lanciata da Djilas e dopo qualche inutile ammonimento lo fece processare ed espellere dal Comitato centrale del partito convocato in seduta plenaria. Seguirono, nel novembre 1956, dopo la rivoluzione ungherese, l’arresto e un processo in cui Djilas fu condannato a dieci anni di carcere. Uscì di prigione con una sorta di condono cinque anni dopo, ma vi tornò nel 1962, colpevole di avere pubblicato all’estero Conversazioni con Stalin, uno dei suoi libri più interessanti. Come vede, caro Fadda, le raccomandazioni di Isaac Deutscher non possono valere per Milovan Djilas. Come avrebbe potuto denunciare l’esistenza della nuova casta se non avesse preso di mira esplicitamente coloro che ne facevano parte?
Corriere della Sera 26 luglio 2013