Sono trascorsi 75 anni dalla morte di Don Bonifacio, avvenuta l’11 Settembre 1946. Riportiamo qui di seguito il testo della conferenza tenuta da Anna Maria Crasti nell’ambito del ciclo di videoconferenze organizzate in occasione del giorno del Ricordo 2021 dal Comitato provinciale di Monza e Brianza dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.
«Nel periodo 1940 – 1947 in Istria i 250 sacerdoti presenti furono spiati, vessati, privati degli introiti delle chiese, insultati, sbeffeggiati, umiliati, minacciati, buttati fuori dalle loro canoniche, estromessi dall’insegnamento, indotti a fuggire, imprigionati, processati, aggrediti, percorsi, torturati e uccisi.
Nonostante ciò la gente, numerosissima, andava alla Messa a piedi, felice di parteciparvi, ascoltando con attenzione le omelie dei sacerdoti: quelle di Don Bonifacio erano difficili perché dava delle indicazioni molto precise su comportamenti e modi di vita, in modo che i suoi fedeli potessero metterli in pratica. Chi lo ascoltava cercava di fare del proprio meglio. È pur vero che a quei tempi le parole dei preti erano ascoltate con molta attenzione e con spirito di ubbidienza.Don Francesco era nato a Pirano da una famiglia modestissima. Per farlo andare in seminario, a 12 anni, a Capodistria, due sue sorelle erano andate a servizio presso delle buone famiglie benestanti. Fin da quell’età ed anche un po’ prima aveva sentito, fortissima, la vocazione al sacerdozio. Sempre in seminario e per tutta la sua vita è stato chiamato il prete, il pretino buono. Il suo tratto era la semplicità, la spontaneità, gentile e servizievole, con tutti. Un ragazzo buono tanto che, al seminario di Capodistria, lo chiamavano “El Santin”.E’ sempre stato in pace con tutti, amico di tutti, senza separazioni anche in quegli anni in cui i nazionalismi emergevano al Confine Orientale e dividevano la popolazione italiana da quella slava, con forti rancori mai sopiti. Per lui ogni uomo era un fratello.
È stata la sua bontà verso tutti, indiscriminata, che lo ha portato alla morte, non perché italiano -e questo allora per i titini era già un aggravante- ma per l’ascendente che aveva sui suoi fedeli, soprattutto sui giovani.
Sui giovani, perché sia a Cittanova che ha Crassiza, le due località dove ha esercitato il suo impegno pastorale, ha costituito l’Azione Cattolica, iniziando dai beniamini, dagli aspiranti per arrivare ai giovani ed anche alle donne sposate. Alla sua proposta di quest’esperienza tutti rispondevano con entusiasmo, anche se il nostro Don Bonifacio era molto esigente, chiedendo una formazione umana e cristiana robusta e seria, che consisteva nella preghiera, nella meditazione, nella vita liturgica e sacramentale, nell’adorazione del Santissimo Sacramento e nell’apostolato. Richiesta impegnativa che richiedeva uno sforzo serio e costante. Eppure tutti lo seguivano: il suo esempio era determinante.In quei tempi estremamente difficili, tragici, impavido, forte della sua fede e del suo amore per il prossimo -i suoi fedeli- girava a piedi, quando andava bene in bicicletta, per strade e stradine e sentieri solitari e pericolosi.
Andava a fare il catechismo ai bambini che abitavano troppo lontano dalla chiesa e così anche le mamme ascoltavano e partecipavano. Con la sua presenza confortava gli anziani e gli ammalati che non si potevano muovere. Era sempre presente nei momenti di bisogno, di giorno e di notte, e girare solo, di notte, per quelle stradine di campagna che potevano nascondere partigiani titini, sloveni e croati e purtroppo, anche italiani, pronti ad ogni efferatezza, significava avere un grande coraggio o come nel caso di Don Bonifacio una grande Fede, immensa Fede, nonostante fosse stato minacciato dai titini.L’idea della morte l’aveva accompagnato per tutta la vita. Nel 1933 scriveva: “La morte sopraggiungerà non credo troppo tardi” e nel 1941 diceva “Quando morirò? dove morirò? devo per tempo prepararmi…. Prepariamoci anche al martirio…… siamo in tempi eroici, siamo eroici, se occorre fino al martirio”.
Don Francesco sapeva il pericolo che correva, tanto da chiedere al suo vescovo di Trieste cosa doveva fare in quella situazione di odio, che induceva a commettere tante atrocità. Monsignor Santin lo esortò a restare fedele al suo dovere.
Serenamente Don Bonifacio è rimasto con i suoi fedeli perché credeva, nonostante gli orrori che stavano accadendo, credeva nella bontà degli uomini con la speranza in Dio e nella Divina Provvidenza.
Mentre di sera, al tramonto dell’ 11 settembre 1946, vicino a Grisignana attraversava una vigna, fu costretto a salire su una macchina della polizia politica comunista, fu picchiato selvaggiamente con rabbia e barbaramente ucciso. Non invocava pietà per sé stesso, invocava il Signore perché avesse pietà e perdonasse i suoi aguzzini.
Perché lo hanno ucciso ?Don Bonifacio, con l’Azione Cattolica, nella quale riversava tanto del suo impegno, era riuscito ad avere la fiducia e l’affetto, grandi, di tutta quella piccola popolazione che curava, e non solo spiritualmente. Povero, quasi in miseria com’era, non si presentava mai per il catechismo o per salutare anziani ed ammalati, non arrivava mai senza due uova, una manciata di fagioli, un po’ di farina. Povero tra i poveri aiutava anche materialmente chi era più povero di lui.
Si era preso molta cura dei giovani, dai bambini in su. Aveva formato il piccolo clero per servire all’altare, cosa che a Crassizza non era mai avvenuta. I piccolini stavano seri e composti intorno all’altare. Pretendeva dalle mamme, e le mamme lo facevano volentieri, che la loro piccola veste e la cotta fossero perfette, pulite e stirate.
Aveva organizzato un coro per animare la liturgia, aiutato dal fratello Nino, che con lui viveva e che suonava l’organo, tanto che in pochi mesi, alla visita pastorale del Vescovo Monsignor Santin, questi si era stupito dei risultati ottenuti in brevissimo tempo. Aveva formato una filodrammatica e creato una piccola biblioteca. Gran parte della Canonica era diventata un oratorio dove i bambini si recavano a giocare.
Nell’Azione Cattolica aveva coinvolto tutti i giovani, aveva saputo coinvolgere tutta la popolazione, circa 1100 persone, 124 capofamiglia, in maniera totale ed entusiasta. L’ora di adorazione davanti al Santissimo Sacramento era assidua, tanto che esisteva un quaderno per i turni di adorazione. Don Francesco, dunque, grazie a tutta questa nuova vita cristiana, di appartenenza cristiana che era riuscito a risvegliare, era stimato e molto amato.Ma non lo era dai nuovi “padroni”, che con la loro dottrina atea e comunista vedevano la religione e di conseguenza i suoi rappresentanti come nemici da perseguitare, anzi da odiare: nemici del popolo.I nuovi padroni, partigiani comunisti titini, sia slavi che italiani, cercavano di attirare i giovani con canti, cori, non di vecchie canzoni istriane, ma di nuovi inni comunisti, con balli -il più famoso il kolo- favorivano una promiscuità che induceva ad una totale assenza di castità. Siamo nel 1946. Per i giovani, soprattutto le giovani, la castità era allora quasi sacra; mentre dagli occupanti comunisti la libertà sessuale era appoggiata ed incoraggiata.Ma i giovani di Crassizza non si lasciavano convincere da tutta quella libertà, da quella facilità di vita. Erano convinti della loro vita, di come la stavano vivendo, non si lasciavano corrompere e questo provocava nei titini un insanabile odio verso Don Bonifacio. “Tempi pericolosi nel senso che la morte può essere ad ogni piè sospinto, ma la parola di Cristo non falla: non prevalebunt” – diceva ai suoi giovani mentre consegnava, felice, i primi distintivi dell’azione Cattolica.
Non hanno potuto vincere la sua forza spirituale, morale, non potevano conquistarsi i suoi giovani ed allora, in quella sera del 11 settembre,” i suoi aguzzini si imbestialirono perché non riconobbe le proprie colpe, non tremò di paura. fu un prete testardo… pregava Dio, chiedeva perdono a Dio per tutti…scaraventato fuori dall’auto, fu colpito con una pietra sul viso, sarebbe stato sgozzato a colpi di coltello alla gola. Nascosto il cadavere, al mattino seguente fu fatto sparire”. Il suo corpo non è mai stato ritrovato.Quel sudario, quel tremendo muro di silenzio che ha coperto la storia di noi Istriani Fiumani e Dalmati, ha coperto anche la vita e, di più, la santa morte di Don Bonifacio, ucciso perché era un vero prete, in “odium fidei”.E’ questo il motivo della sua beatificazione. Perché di lui si sapesse, perché si conoscesse la sua Santità ci sono voluti 50 anni. Il processo canonico è stato difficoltoso: l’uccisione di un prete avvenuta misteriosamente, l’impossibilità di trovare testimoni per la paura di parlare o per motivi politici, il corpo mai ritrovato, la mancanza di volontà di ritrovarlo, i territori in cui è vissuto ed è stato ucciso passati alla Jugoslavia, i rapporti, timidi, tra Santa Sede e Jugoslavia, tutto questo ha contribuito a dimenticare ufficialmente la storia di Don Francesco. Ma la sua storia è ritornata trionfalmente alla luce con la sua beatificazione. quel silenzio durato decine di anni ha pesato non solo sulla verità della morte di Don Bonifacio, quel silenzio ha coperto la verità sulle atrocità compiute contro di noi, sulle persecuzioni, torture, umiliazione da noi subite.»
Anna Maria Crasti – 11/09/2021
Fonte: Como Live, Resegone Online, Valtellina News, Varese in Luce.
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Cerimonia a cura del Comitato provinciale di Trieste dell’Anvgd e dell’Associazione delle Comunità Istriane.
Il Piccolo – 11/09/2021