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Don Dianich: Fiume rimane per sempre nel mio cuore (Voce del Popolo 23mag13)

Sentirsi stranieri in casa propria. È una condizione comune e tristemente nota sia a molti esuli sia a diversi rimasti, difficile da comprendere e da accettare. Avere la percezione di essere a casa propria ha un significato molto profondo, che include legami affettivi, senso di appartenenza, identità, comprensione, condivisione e ricordo. Quando uno di questi fattori viene a mancare, allora si vive sì nel luogo geografico, ma si fa fatica a comprenderlo, accettarlo e riconoscerlo. Ed è ciò che è capitato a don Severino Dianich, uno dei massimi esperti italiani di teologia, fiumano di nascita, esule dal 1948, ritornato 65 anni dopo a Fiume, ospite in questi giorni della Facoltà di Teologia. Prima di oggi ci era venuto un’altra volta, negli anni ’80. E poi basta.

“Ho lasciato la città che ero appena un ragazzino, avevo 14 anni. Stavo per iniziare la prima ginnasio al Liceo di via Ciotta (l’odierna Scuola media superiore italiana, ndr). Purtroppo il periodo della mia infanzia fiumana – racconta padre Dianich – è stato molto triste a causa della guerra, del regime. Ho assistito alla creazione della scuola media unica, imposta dal governo jugoslavo e a tanti fenomeni negativi legati al regime di Tito. Ricordo molto bene i processi ai preti, il dramma della Chiesa dell’Immacolata, tutte immagini non belle, anche se l’amore per la città è rimasto sempre vivo”.

La sua vocazione si è manifestata prestissimo, da bambino ha fatto il chierichetto… Ecco, che ricordi ha della vita religiosa nella Fiume dell’epoca?

“Fiume è sempre stata una città piuttosto laica e pluralista, perché aveva due sinagoghe, la chiesa ortodossa, due chiese evangeliche…Negli anni in cui sono stato qui, sto parlando degli anni del regime di Tito, la Chiesa ha rappresentato l’unica istituzione che richiamava alla libertà. Per questo il vescovo Ugo Camozzo era idolatrato dai fiumani, non per una ripresa del senso religioso, ma perché era l’unica autorità rappresentativa che si distanziava dal regime sotto cui si viveva”.

Ecco a proposito di Camozzo, che ricordi ha della sua figura e di quella di Luigi Torcoletti?

“Torcoletti era il mio parroco, perché abitavo nella Cittavecchia. Ora è tutto cambiato e non sono più riuscito nemmeno a ricostruire il luogo della mia casa natale, che era in piazzetta Marotti, vicino all’odierno monumento della Mlecarizza. Torcoletti era un parroco di grande prestigio se vogliamo, anche se non di grande efficienza pastorale; era circondato da viceparrocci molto efficienti, per cui la parrocchia era molto viva. Questo me lo ricordo molto bene, perché ero un chierichetto e collaboravo con il cappellano don Alberto Cvecich, che era un istriano, morto alcuni anni fa a Pisa all’età di 86 anni. È stato un uomo di grande valore che ha lasciato un grande ricordo nella città toscana, dove era un punto di riferimento assai importante”.
“Torcoletti era poi interessato alla storia di Fiume, era molto attaccato all’italianità della città, era una persona di prestigio anche a livello civile. Camozzo è stato un vescovo molto amato anche dai croati, per i quali si era assai impegnato per creare rapporti positivi, civili. Io lo ricordo ancora predicare in croato nella cattedrale di San Vito, con una pronuncia un po’ ostentata da veneziano quale era, ma grazie al suo instancabile lavoro era riuscito a creare una buona rete di umanità”.

È ritornato a Fiume per la prima volta appena trent’anni dopo. Come mai ha fatto passare così tanto tempo?

“A dire la verità non ho mai avuto il desiderio di tornare, perché mi dà una certa tristezza sentirmi straniero nella mia città. Anche se poi, una volta venuto, questa cosa l’ho superata e ho girato e voluto rivedere tante cose della mia infanzia. Le dirò una cosa che sembrerà strana: nel rivedere la città ho l’impressione che sia più grande e più bella di quanto la ricordavo. Mentre in genere i ricordi dell’infanzia sono all’opposto, perché da bambini si vede tutto grande, poi quando ci si va da adulti si vede tutto piccolo, invece l’ho ammirata molto, forse perché quando l’ho lasciata era ferita dalla guerra era in condizioni pietose per i bombardamenti che hanno fatto danni immani. Al cuore non si comanda e Fiume, anche se completamente diversa, è sempre nel mio cuore”.

Come vede il nuovo papa?

“Il nuovo papa senza dubbio risponde a certe attese che c’erano, un’attesa di maggiore semplicità, di maggiore spirito evangelico, di sfrondamento del cerimoniale, dell’apparato, ecc. Naturalmente questa è solo la prima impressione, ovviamente nessun giudizio si può dare ancora perché non è entrato nel lavoro vero e proprio di quella che è la sua azione di governo e dei progetti che eventualmente prevede per una riforma. Si è parlato molto della riforma della Curia romana a causa degli inconvenienti e di certi scandali recenti, ma in realtà a mio giudizio il problema non è la riforma della Curia romana, ma il rinnovamento e la riforma, per certi aspetti con maggiore fedeltà al Concilio Vaticano II, della Chiesa. La curia verrà riformata in seguito, essendo questa un organismo al servizio della Chiesa, deve essere impostata secondo la vita della Chiesa”.

E di riforma e Concilio don Severino Gianich ha parlato nel corso della sua lezione alla Facoltà di Teologia. A salutarlo c’era anche una delegazione della Comunità degli Italiani e del Coro fedeli fiumani, rappresentata da Ardea Juranić e Maristella Klevisser, che gli ha regalato la monografia “Italiani a Fiume”. E lui ha ringraziato, commosso.

Marin Rogić
“la Voce del Popolo” 23 maggio 2013

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