TRIESTE Lelio Luttazzi è tornato a casa. Dopo 54 anni, di cui molti passati sulla ribalta radiofonica e televisiva o nelle orecchie di chi ama il suo irresistibile swing, l’artista ha deciso di lasciare Roma e tornare stabilmente a vivere nella sua Trieste. Anzi, nel cuore della città: in un appartamento affacciato su Piazza Unità, proprio di fronte al Municipio. «Sono a Trieste da due giorni, per il resto della mia vita», dice Luttazzi con gli occhi che brillano. «In questi giorni stiamo traslocando, si occupa di tutto mia moglie Rossana. Fra 4-5 giorni potrò entrare nella nuova casa nello splendido Palazzo Pitteri». La voce non si è ancora sparsa, ma la gente per strada ha già cominciato a dimostrargli il suo affetto: «Ieri passeggiavo con mia moglie in Corso Italia. Una signora ci ha superati, si è girata e mi ha detto: “Bentornato a casa”. Chissà come sapeva che sarei rimasto qui. È stato molto bello».
Luttazzi, del resto, è stato uno dei protagonisti della storia della tv, con trasmissioni come «Studio Uno» e «Teatro 10», ma anche della radio, con l’indimenticabile «Hit Parade», e della musica, con brani come «El can de Trieste», «Chiedimi tutto», «Souvenir d’Italie». Una carriera che non ha smesso di affascinare (il sito Youtube pullula di suoi vecchi filmati) e che il pubblico potrà ripercorrere grazie a un documentario voluto dalla Regione Friuli Venezia Giulia, prodotto da Rai Trade e Contape, e firmato dalla mano esperta di Pupi Avati: il dvd, insieme ad un libro di Adriano Mazzoletti, uscirà intorno al 10 dicembre in un «booklet» dal titolo «Il giovanotto matto», come il brano scritto di getto a Barcola che segnò l’inizio del suo successo.
Signor Luttazzi, perché ha deciso di tornare a Trieste?
«Nelle precedenti e fugaci visite nasceva sempre l’idea di tornare, ma più per scherzo: a 85 anni non si cambia volentieri, e poi il trasloco è sempre motivo di stress. In estate sono venuto con la troupe di Pupi Avati per girare il documentario sulla mia vita. Sono rimasto quattro giorni e alla fine, sedendomi al Caffè degli Specchi, mi dicevo: pensa che bello sarebbe abitare in Piazza Unità. Dopo un paio di mesi, per una coincidenza miracolosa o forse perché la voce è in qualche modo circolata, mi è arrivata dal Lloyd l’offerta d’affitto di un appartamento a Palazzo Pitteri: sei finestre su Piazza Unità. Di fronte a un’offerta di questo tipo, io e mia moglie abbiamo perso la testa».
Avrebbe mai immaginato di tornare a vivere proprio di fronte al Municipio?
«Da ragazzo, quando passeggiavo partendo dal Liceo Petrarca lungo l’ “Acquedotto” (il Viale XX Settembre, ndr.) e arrivavo poi in Piazza Unità, vedevo i signori seduti al Caffè degli Specchi o al bar di fronte, che allora si chiamava Nazionale: per me, figlio di una maestra vedova, erano i ricchi. Quindi non mi sarei mai immaginato che un giorno avrei abitato proprio in Piazza Unità, fatto raro anche perché in molti di quei palazzi ci sono uffici. Mi sembra un sogno».
Quale aspetto di Trieste l’ha colpita di più appena tornato?
«Sentirmi intorno il dialetto triestino, che se vogliamo è ibrido e “grosso”, con questa “L” piena che ricorda tanto un bicchiere di terrano, ma alle mie orecchie suona come una bella musica. Mi propongo di fare indigestione di dialetto, non lo parlo da mezzo secolo a parte in rare occasioni, ad esempio quando ho incontrato Missoni. Avevo una voglia pazza di parlarlo di nuovo».
Non l’ha mai dimenticato?
«No, perché per noi triestini è la lingua madre. Sono contento che si continui a usarlo come quando me ne sono andato. Mia madre maestra voleva che parlassi in italiano, ma non curavo la dizione. Quando poi ho fatto in radio “Hit Parade”, prima di andare in onda in diretta mi segnavo gli accenti gravi e acuti sui testi del grande giornalista e umorista Sergio Valentini».
Cosa vedremo nel documentario «Il giovanotto matto», in cui ripercorre la sua vita?
«Non sembra un documentario televisivo, ma un film per il cinema: il merito va a Pupi Avati e al bravissimo direttore della fotografia Cesare Bastelli. L’ho visto qualche giorno fa e l’ho trovato molto bello. Racconta tutta la mia vita, dall’infanzia e la giovinezza trascorse a Prosecco e Trieste, alle tappe più importanti della mia carriera. C’è molto materiale d’archivio della Rai, ad esempio i miei duetti con Mina, con Sylvie Vartan e le canzoncine che dovevo preparare ogni settimana con l’ospite di turno, anche con Mike Bongiorno. Non mi è mai piaciuto rivedermi, mi trovavo lezioso, però Avati ha scelto il meglio: sempre “cum grano salis”, devo dire che ho fatto parecchie cose belle nella mia carriera».
Eppure, dopo qualche anno di studio di pianoforte, ha proseguito da autodidatta…
«Mi sono sempre considerato un “bravo dilettante” in tutte le discipline artistiche che ho affrontato. Per esempio l’arrangiamento d’orchestra, cioè la scrittura e l’armonizzazione su spartito di tutti gli strumenti, non l’ho imparato studiando armonia ma direttamente al pianoforte. Ho lavorato con grandi maestri come Gorni Kramer, con cui ho fatto in radio nel 1953-53 “Nati per la musica”, e Armando Trovajoli, che ha 91 anni e ancora continua a scrivere».
Lei, invece, non si fa più vedere molto spesso in pubblico.
«Ho incontrato Mario Monicelli (per il quale Luttazzi ha scritto la musica del film “Risate di gioia”, ndr.) dopo molti anni, in occasione di un concerto delle mie canzoni all’Auditorium di Roma. Quando ci siamo salutati mi ha detto: “Credevo fossi morto!”. Perché lui, pur avendo 93 anni, continua ad uscire la sera e ad andare in giro, io invece non molto. Sto anche diventando sordo, il che mi fa avvicinare a Beethoven (sorride, ndr.)».
Cosa prova lasciando Roma?
«Non è lo shock o lo stress che paventavo. Trieste è incantevole e poi la gente è poca, passeggiando non sembra di essere alla fiera o al mercato come nella capitale. Però non voglio parlarne male: mio padre era di Palombara Sabina, vicino Roma, e poi lì ho avuto tante soddisfazioni e tanti successi. Lascio un appartamento molto carino, tutto in verticale su tre piani a Trastevere, in uno dei Palazzi Torlonia dove abitava anche Bernardo Bertolucci. Nel mio appartamento, invece, abitava un tempo Fernanda Pivano. Però quello costava addirittura di più rispetto a quello in cui abiterò a Trieste e dal quale vedrò la Piazza, il Faro, Prosecco, Contovello».
Tornando nella sua città, tornano anche i ricordi del passato?
«Sto perdendo sempre più la memoria ma mi ricordo bene la mia vita da ragazzo. Ho vissuto il ginnasio con gioia ma anche con la paura di essere esaminato, perché dovevo per forza passare con la media del sette per avere la riduzione sulle tasse. Adesso invece torno a Trieste da “vincitore”: tanti mi ricordano, soprattutto da “Studio Uno”. Oggi sono poco esibizionista, però l’affetto delle persone fa sempre piacere».
Suona ancora ogni tanto il pianoforte?
«Raramente, magari quando c’è una cena con amici e me lo chiedono. Allora strimpello per un’oretta, sempre swing. Anche se suonassi ancora per esibirmi lo farei sempre a modo mio, sullo stile dell’epoca d’oro americana degli anni ’50, con quelle armonie così diverse dal pop».
Elisa Grando