Tredici anni dopo l’originale italiano è uscita ora la versione tedesca dell’opera standard di Marina Cattaruzza sul “Socialismo adriatico” (“Sozialisten an der Adria. Plurinationale Arbeiterbewegung in der Habsburgermonarchie”, traduzione di Karin Krieg, Duncker&Humblot), ma il fatidico numero in questo caso porta fortuna per i lettori ignari della lingua italiana, i quali possono finalmente accedere a questo importante capitolo della storia del “Litorale” asburgico, finora piuttosto trascurato – se ne rammarica l’autrice stessa nell’introduzione – dalla ricerca tedesca e anglosassone sulla Duplice monarchia. A parte lievi modifiche e aggiornamenti dovuti al passare del tempo e alla considerazione per i destinatari germanofoni, il testo è anche arricchito di un capitolo conclusivo che serve ottimamente da sintesi.
Per chi scrive, la traduzione tedesca rappresenta la gradita occasione di una rilettura di quest’opera che costituisce una tappa importante nell’itinerario storiografico della cattedratica bernese, rivolto a ricostruire – al di là delle forzature unilaterali della storiografia nazionalista oppure localista a lungo in auge – la realtà assai complessa della società giuliana, in particolare quella del mondo del lavoro di Trieste centro portuale, fino alla dissoluzione della compagine absburgica. “Sozialisten an der Adria” è la sobria, ricca, magistrale narrazione di una grandiosa utopia politico-umanitaria finita tragicamente: nascita, imponente sviluppo e naufragio eteronomo della Sezione adriatica del Partito operaio socialista in Austria.
Dopo l’iniziale rassegna dell’associazionismo e mutualismo operaio dal 1867 (riforma costituzionale in Austria-Ungheria) in poi, si passa alla Società Operaia Triestina di estrazione liberalnazionale-democratica, aperta a diverse categorie professionali, libera di esclusivismo nazionale, “culla” politica di personaggi come Pittoni, la Martinuzzi e Vivante, “convertitisi” dopo all’austromarxismo. La Confederazione operaia, fondata nel 1888, si distingue dalla Sot non solo per gli organici legami con il movimento socialista in Austria, ma anche per il suo carattere univoco di associazione di lavoratori salariati; il suo trilinguismo si intende come «comandamento di carità fraterna». Quando nel 1891 la Confederazione viene sciolta dalle assai prudenti autorità statali, uno dei suoi uomini guida, «l’immensamente amato dirigente operaio» Carlo Ucekar fonda nel 1894 la Lega socialdemocratica che irrobustendosi prende nel 1897 il nome del Partito sociale-democratico del Litorale e della Dalmazia, la cui Sezione Adriatica nord, sempre etnicamente mista, comprende i distretti Trieste, Istria e Gorizia.
La neonata sezione viene subito travagliata dagli intrighi dei suoi leader che causano la caduta del segretario Gerin e la cooptazione nella segreteria di Valentino Pittoni, pronto a prodigarsi al partito «come un amante all’amore» (A. Cambrini). Nel 1902 nasce la sezione italiana per il Litorale, denominata Partito operaio socialista in Austria. Sezione italiana-adriatica di cui Pittoni, dopo la morte di Ucekar, diventa capo indiscusso. Mentre Ucekar, amico di Oberdan, rappresentava la prima fase del socialismo adriatico, una commistione di valori autenticamente socialisti e repubblicani di derivazione italiana, Pittoni omologa il programma della Sezione adriatica con quello della socialdemocrazia austriaca di Victor Adler, Karl Renner e Otto Bauer, partito gradualista e riformista, fautore della progressiva emancipazione-autoeducazione del proletariato. Come presidente delle Cooperative operaie, responsabile del quotidiano “Il Lavoratore” e deputato al Reichsrat, Pittoni «guida il partito con pugno di ferro», come constata la Cattaruzza, e lo porta alla grandiosa vittoria elettorale del 1907, quando i socialisti guadagnano tutti e quattro i mandati della città per il Reichsrat.
Rigorosamente internazionalisti, i compagni triestini si riconoscevano a tutti gli effetti nel “programma delle nazionalità” della socialdemocrazia dell’Impero, votato nel 1899 a Brno, che avrebbe potuto risolvere «il cannibalismo delle lotte di razza» (Pittoni) nello Stato plurinazionale, se si fosse fatta strada «una concezione dell’identità nazionale basata su fondamenti culturali, depotenziata delle implicazioni politiche». È questo concetto culturale di nazione che affascinò il giovane Stuparich, lucido corrispondente centroeuropeo de “La Voce”, ed ispirò – mediatore Angelo Vivante – il progetto dell’«irredentismo culturale» che Slataper opponeva all’irredentismo politico considerandolo pericoloso per la vita economica di Trieste come «la scure sulle radici».
Molto opportunamente la Cattaruzza mette in rilievo l’egualitarismo umanistico di una donna straordinaria, Giuseppina Martinuzzi, dirigente di spicco del socialismo adriatico, figlia di proprietari terrieri albonesi, proveniente da posizioni irredentiste di sinistra. Facendo la maestra a Trieste conosce tutta la miseria e l’abbrutimento morale del proletariato (confronta il suo opuscolo “Fra gli irredenti”, 1899) e diventa attivissima partigiana dell’educazione operaia come strumento di emancipazione non solo economica, ma culturale ed etica. Sorprendentemente immune dagli stereotipi nazionali del suo tempo, la Martinuzzi rifiuta la tesi del rapporto asimmetrico tra i popoli cristallizzatosi nella storia e sostiene la pari dignità delle diverse culture nazionali. Quanto alla natia Istria, la Martinuzzi si impegna per l’affratellamento dei due proletariati (italiano e croato) nel reciproco rispetto linguistico-culturale che le sembra – realisticamente! – la sola possibilità di sopravvivenza della cultura italiana «sull’orlo di un abisso».
Soffermandosi sulla questione nazionale Cattaruzza sottolinea che la causa fondamentale dei successi elettorali del partito sia stata la convergenza tra la sua ideologia internazionalista e gli interessi materiali della base, delle masse operaie etnicamente miste. Trieste non era soltanto uno dei maggiori centri economici dell’impero, era anche più di ogni altra città legata al suo retroterra statale. In questo senso non apparteneva davvero ad una determinata nazionalità, ma alla monarchia nel suo complesso, come osservò il luogotenente Hohenlohe nel 1913. Questo stato dei fatti venne analizzato da Angelo Vivante, l’unico grande teorico italiano socialista del Litorale, nel suo saggio Irredentismo adriatico (1912). Smascherando il dualismo della borghesia triestina oscillante tra utilitarismo austriacante e patriottismo italianizzante, egli criticò la “menzogna nazionale” dell’irredentismo in un’area etnicamente composta e la “menzogna economica” ai danni del florido porto centroeuropeo che l’agognata Italia non avrebbe potuto valorizzare. Per questi socialisti triestini, dirigenti e militanti, che «ritenevano possibile mantenere la propria identità culturale nell’ambito dello Stato absburgico» (Cattaruzza) lo scoppio della guerra ed il pusillanime cedimento della socialdemocrazia austriaca di Adler all’opzione del conflitto armato fu uno choc e uno smarrimento senza fine. Visto l’allineamento dei socialdemocratici austriaci con gli obiettivi del militarismo tedesco, «i bravi compagni triestini» erano in effetti i soli socialisti internazionalisti dell’Austria, come scrisse causticamente Antonio Labriola.
L’entrata dell’Italia in guerra colmava per loro, rigorosamente pacifisti, sia la tragedia dell’Europa per la quale avevano intravvisto l’evoluzione verso una federazione democratica dei popoli, sia la tragedia delle loro esistenze individuali: l’“anazionale” Angelo Vivante che considerava “l’assassinio collettivo” in guerra la negazione più radicale dell’umanità, si suicidò nel 1915. Valentino Pittoni dopo la vittoria dell’ala massimalista del partito nel 1919 lasciò la politica è finì a Vienna, amministratore del quotidiano “Arbeiter Zeitung”. Michele Susmel, meritevole organizzatore del glorioso “Circolo di Studi Sociali”, si suicidò nel 1924. Davanti a tale tramonto di un’utopia umanitaria, davanti all’esecrabile momento, quando «la chiave per la storia del XX secolo» si è messa a girare dalla parte sbagliata, chi scrive rimane incerta se si deve preferire l’utilissima sinossi che conclude la versione tedesca del saggio di Marina Cattaruzza o il drammatico compianto che chiude l’originale italiano: «Perché tanto odio di cittadino contro cittadino, di italiano contro italiano?”, chiede ai lettori l’anonimo articolista del “Lavoratore” dopo l’assalto alle “Sedi Riunite” da parte dei nazionalisti nell’agosto 1919, “Che fare? Eccoci qui, soli, soli, come mai, a cercare una risposta».
Renate Lunzer
“Il Piccolo” 28 aprile 2012