di MARINA ROSSI
Quella delle missioni militari alleate nella Slovenia occupata dall’Esercito italiano e nella Venezia Giulia è una storia complessa, indagata solo di recente dagli storici, soprattutto sloveni. Il volume di John Earle, ”Il prezzo del patriottismo. Soe a MI6 al confine italo-sloveno durante la Seconda Guerra Mondiale” (Iniziative Culturali, traduzione di Fabio Accursio), seguìto all’edizione in lingua inglese, uscita a Londra nel 2005, costituisce una rara occasione di approfondimento sul tema. Il libro viene presentato oggi, alle 17.30, al Circolo della Stampa di Trieste, in corso Italia 13.
Forte della sua personale esperienza, di una ricchissima documentazione proveniente da archivi britannici e sloveni, da testimonianze rilevate “in loco” e da un’ampia bibliografia, l’autore delinea le vicende dei ”padàlci”, i paracadutisti selezionati e reclutati dall’Intelligence Service tra i soldati del Regio Esercito Italiano di origine slovena catturati in Africa Settentrionale, motivati sul piano patriottico e politico, per utilizzarli militarmente all’interno del Soe (Special Operations Executive, Agenzia Operazioni speciali), organizzazione segreta concepita nel ’39 e istituita nel luglio 1940, dopo la caduta della Francia, allo scopo di promuovere la resistenza al nazismo nelle zone occupate dell’Europa. Una attività poco nota in Slovenia e nelle zone confinanti con l’Italia.
I compiti dei membri affiancati ai partigiani jugoslavi erano identici a quelli di una missione militare: assistenza nel rifornimento, scambio di informazioni, coordinamento tattico e via dicendo.
Il capitano John Earle, in servizio con l’VIII Armata nel Deserto occidentale, ferito ad El Alamein, entrò nel Soe nel 1943. Paracadutato in Jugoslavia, comandò delle missioni con i partigiani in Serbia, Montenegro e Bosnia. Fu a Trieste come membro dell’Intelligence nel quartier generale britannico di stanza a Duino, nel 1945.
Laureatosi a Cambridge nel 1947, lavorò intensamente come giornalista dapprima per la Reuters, in qualità di corrispondente dalla Germania, da Belgrado e da Londra; dal 1962 al ’67 responsabile dell’agenzia a Roma è stato corrispondente per il ”Times”.
A Trieste, dove risiede stabilmente dal 1986, ha sviluppato altre ricerche d’argomento economico e politico. Nel 1993 la costante attenzione di Earle nei confronti della ex Jugoslavia, alimentata da rapporti mai interrotti con la Slovenia, gli ha consentito di collegare il capitolo della missione militare da lui diretta in Serbia a quello delle missioni britanniche.
Grazie alla preziosa collaborazione dello storico e giornalista sloveno Ivo Jevnikar, riusciva a ritrovare quattro paracadutisti, scoprendo – soprattutto al Public Record Office, poichè l’archivio della Soe fu distrutto da un incendio – che almeno 12 erano, invece, scomparsi senza lasciare traccia. «Si è consumata la piccola tragedia di 12 persone che non sono più ritornate a casa, poca cosa rispetto ai massacri compiuti alla fine della guerra, ma è giusto che si sappia anche di questo…» osserva l’autore, il cui fattivo impegno ha reso più forte e più visibile in Slovenia la memoria di quei caduti. Ricordati inizialmente da due lapidi (a Škrbina, vicino a Comeno, area su cui si lanciò il primo gruppo di paracadutisti e dove si trova la casa di uno di essi) e oggi anche attraverso una cerimonia anglo-slovena promossa a Škrbina ogni anno l’11 novembre.
Se la riabilitazione di quei patrioti rimane un problema interno alla Slovenia, la ricerca sviluppata ne ”Il prezzo del patriottismo” ci tocca direttamente, perché fa riflettere sugli interessi manifestati dalle grandi potenze su quest’area, in cui operarono missioni angloamericane e sovietiche. Occorre capire, però, che gli uomini impegnati nelle missioni dovevano soprattutto ottemperare all’ordine di vincere la guerra ad ogni costo. Tutto il resto era di secondaria importanza. Bisognava evitare le discussioni politiche, ma, come emerge dal volume, gli ufficiali del Soe dovevano raccogliere informazioni politiche, la priorità del loro impegno era militare.
Di quegli ufficiali Earle delinea diverse tipologie, ne illustra le difficoltà, non ultima tra le quali la non conoscenza della lingua locale e del territorio. Le pagine dedicate ai rapporti con la brigata Osoppo e la Garibaldi-Natisone risultano emblematiche.
La tragedia consumatasi alle malghe di Porzûs conferma la contrapposizione di due progetti politici: la democrazia liberale per cui combattevano gli osovani, la speranza nel socialismo dei partigiani italiani e sloveni di fede comunista. Lo indicano passi significativi dei rapporti stesi nell’estate 1944 dal maggiore Hedly Vincent, ufficiale di collegamento britannico accreditato presso i partigiani italiani, il più vicino al IX Korpus sloveno nell’area di Faedis, Attimis e Nimis, dove operavano osovani e garibaldini. Vincent riuscì a “correggere” lo stato delle relazioni convincendo i partigiani a unificare i comandi; nasceva così la Garibaldi-Natisone, che in settembre si spostava verso Ovest in Friuli, seguendo le direttive degli alleati occidentali. L’offensiva sferrata dalla Wermacht in quel mese provocava molte perdite tra gli osovani; per Vincent a causa della mancata cooperazione da parte slovena «gli sloveni, posti agli ordini del IX Korpus, si sono rifiutati di combattere ritirandosi senza sparare u
n solo colpo». Gli osovani, a loro volta, lamentarono di essere stati lasciati soli. Parole simili a quelle di Vincent furono usate dall’osovano “Ermes” (Guido Pasolini), in una lettera al fratello Pier Paolo Pasolini.
Da parte slovena, Zdravko Klanjšcek, storico del IX Korpus, ha fornito una descrizione più sfumata del comportamento sloveno. La brigata Gregorcic era stata informata che il nemico stava preparando una grande offensiva contro i partigiani italiani. «Per evitarla, essa si ritirò il 26 settembre verso Hlodic…». «Le due prime brigate (ovvero i garibaldini) riuscirono a sfuggire all’accerchiamento, ma l’Osoppo si mosse in ritardo e fu circondata e decimata».
I comandanti delle forze dell’Osoppo e della Garibaldi, malconce e ridotte di numero, riuscirono a riorganizzare le unità, ma il senso di fiducia reciproca tra “rossi” e “verdi” sollecitato dalla missione britannica era ormai distrutto. Il comando unificato venne sciolto.
Un lungo messaggio da Vincent alla base, inviato il 23 ottobre, segnala che i capi dei garibaldini sono appena tornati dal IX Korpus «dove sono stati accolti a braccia aperte dagli sloveni e dalla missione russa». I garibaldini compresero che operare come partigiani italiani agli ordini del Cln implicava adeguarsi alle direttive emanate dal Comando Alleato. «Hanno perciò avviato contatti con gli sloveni allo scopo di essere posti al loro comando e dunque in condizione di accettare ordini solo da Tito».
Gli ufficiali della Garibaldi discussero in quella fase se aderire o meno a quell’alleanza, cosa che l’Osoppo aveva deciso di non fare. «La fusione con le forze di Tito ha come finalità di offrire una garanzia di indipendenza in vista dell’arrivo degli Alleati». Vincent concluse il messaggio affermando che gli sloveni, mossi da aspirazioni territoriali verso il nord-est dell’Italia, stavano intensificando la propaganda e il reclutamento obbligatorio verso ovest, fino al fiume Tagliamento, ma nella popolazione «l’atteggiamento sloveno è guardato con risentimento e paura». Secondo Earle esistono due ipotesi per spiegare la ragione per cui i garibaldini si sottomisero al comando del IX Korpus. A seguito di pressioni slovene o per iniziativa propria. I documenti avallano entrambe le ipotesi.
In quell’ultimo inverno la direttiva di Alexander aveva ordinato ai partigiani di “stare calmi”, ma non certo al prezzo di tregue o accordi con il nemico. La politica ufficiale dei garibaldini d’altro canto era di continuare ad attaccare il nemico. Dopo la guerra, essi non avevano alcuna intenzione di essere congedati e rimandati a casa “senza nemmeno un grazie”, come disse Vincent in uno dei suoi messaggi. Tale politica era in contrasto con quella degli Alleati. Gli ufficiali di collegamento britannici tuttavia cercavano ancora di convincere garibaldini e osovani a non rompere i rapporti.
Quanto ad atteggiamenti collaborazionisti dell’Osoppo, gli osovani le offerte le ricevettero, la qual cosa implicò contatti con il nemico. Si spinsero fino a infiltrare propri uomini in una forza pagata dal nemico come la Guardia Civica di Udine. Ma le informazioni comunicate dagli ufficiali britannici di collegamento indicano che essi rifiutarono ogni forma di collaborazione.
Conclude Earle: «In guerra, come nella vita, i fatti raramente si lasciano descrivere in bianco e nero. E troppi di questi fatti avevano un colore indistinto per non sollevare la comprensione diffidenza degli sloveni. Come dice un adagio italiano: ”Non c’è fumo senza arrosto”».