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Eco di Bergamo – 080208 – Decimazioni, fucilazioni, infoibamenti

Almeno cinquemila le vittime dell’odio e foibe sono voragini apertesi nelle rocce a seguito
dell’erosione violenta di molti corsi d’acqua. Il loro ingresso nel vocabolario politico dell’Italia
contemporanea si deve, però, al tragico capitolo di quella sorta di etnocidio consumato
in Istria dai partigiani titini alla caduta del fascismo.
Il dramma si consuma – ma si tratta solo di un’anticipazione di quello che si produrrà su più vasta
scala dopo il 25 aprile 1945 – all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre ’43.
Mentre nel resto d’Italia sono i tedeschi a impadronirsi del paese, in Istria e Dalmazia è il movimento di
liberazione jugoslavo a colmare il vuoto di potere creatosi con lo squagliamento dell’esercito
italiano. In un clima di violenta rivolta contadina, il parlamento partigiano decreta l’annessione del Litorale
adriatico e della stessa Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo.
Al contempo le autorità «popolari», subito insediatesi sul territorio, scatenano una violenza diffusa volta a
spazzar via ogni traccia della precedente amministrazione italiana: dai podestà ai segretari comunali, dai carabinieri agli esattori delle tasse. Ben presto l’aggressione anti-italiana allarga il suo campo d’azione.

Bersaglio delle retate divengono i possidenti, i dirigenti d’imprese, gli impiegati, per investire poi l’intera
gamma delle figure rappresentative della presenza italiana in terra istriana. L’ondata repressiva è figlia, certo, di
un latente odio di classe, di un furore nazionalista esploso dopo anni prima di dominazione,
poi di occupazione fascista, e della politica di snazionalizzazione perseguita dal regime, nonché del clima
di violenza generato da una «guerra totale» che non ha conosciuto argini all’orrore.
Essa, però, è anche l’attuazione di un preciso disegno politico volto ad attuare la sistematica
eliminazione della classe dirigente italiana, in modo da togliere di mezzo ogni ostacolo all’instaurazione
del nuovo ordine comunista titino.

L’Istria in quegli anni conosce ogni forma di abbrutimento e di disumanizzazione della lotta politica: decimazioni
delle formazioni collaborazioniste, fucilazioni sommarie, «marce della morte » verso campi di concentramento,
arresti su vasta scala tali da configurare una sorta di epurazione etnica, da ultimo gli infoibamenti.
Ne sono vittime italiani, fascisti e partigiani non comunisti, figure anche secondarie dell’ex amministrazione
italiana, cittadini comuni, donne e adolescenti comprese.
La procedura è, più o meno, sempre la stessa. Il malcapitato viene prelevato a casa, portato in un locale adibito
a sede delle autorità comuniste auto-investitesi del potere di vita e di morte sugli oppositori (veri o presunti
che fossero). Qui sono interrogati, torturati e infine gettati nelle foibe, in genere legati con manette fatte di filo
di ferro. Non tutti muoiono all’istante, tanto che i contadini della zona – un po’ per pietà un po’ per porre fine ai
gemiti atroci dei moribondi – procurano loro la morte gettando nei crepacci fascine infuocate.
Non esiste la macabra contabilità delle vittime.
 Le stime oscillano, a seconda delle fonti, da 2.000 a 10.000.
Esiste pure una storiografia negazionista che si rifiuta di ammettere l’esistenza degli infoibamenti
a danno degli italiani. L’ordine di grandezza più ragionevole sembra essere, però, quello di 4/5.000.

Un capitolo a parte è quello della memoria rimossa – o negata – di questa atroce tragedia patita da nostri connazionali. Del colpevole silenzio imposto all’opinione pubblica, soprattutto ai giovani attraverso
i libri di testo, sull’atroce esplosione di violenza a danno degli italiani giulianodalmati sono molti i responsabili:
l’accecamento ideologico di un antifascismo radicale che ha ridotto – e purtroppo continua a ridurre – a
occupatore fascista chi non si è dimostrato solidale con i partigiani titini; la convenienza politica
al tempo della guerra fredda della Repubblica italiana, portata a mettere il silenziatore ad una vicenda
che poteva creare non pochi imbarazzi sul piano internazionale;
infine la domanda d’oblio di un paese intero che ha preferito stendere un pietoso velo sul consenso da esso
offerto al fascismo piuttosto che operare una dolorosa opera di purificatrice autocoscienza collettiva.
Ro. Ch.

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