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Eco di Bergamo – 080208 – Quell’esodo dimenticato

Il dramma dei profughi giuliano-dalmati dopo la guerra e l’assegnazione di Pola, Zara e Fiume alla Jugoslavia
Dai campi di smistamento ai mancati risarcimenti. La responsabilità del fascismo, la brutale reazione di Tito

L' esodo dei profughi giuliano-dalmati rappresenta l’evento forse che meglio, e più dolorosamente,
illumina il carico di sofferenze e di sacrifici patito dall’Italia in seguito alla sconfitta. Eppure è stato condannato
dalla memoria collettiva ad essere, al pari degli infoibamenti, rimosso, negato e quindi anche disconosciuto.

Sulle dimensioni materiali e morali della tragedia è difficile non concordare. La fuga dalla terra d’origine ha
coinvolto un numero complessivo che si aggira intorno alle 350.000 persone. Insieme, è costato alle vittime,
fin da subito, il calvario della perdita di ogni bene, di ogni legame comunitario, di ogni ruolo sociale fino
a far loro mettere a repentaglio la stessa identità di persone e di cittadini.

Una volta messo piede nella Penisola, i profughi hanno dovuto affrontare poi la lunga trafila delle sofferenze
legate, inizialmente, al loro tribolato arrivo nei campi di smistamento di Venezia e di Ancona, in un
secondo tempo alla loro sistemazione – sulla carta, provvisoria, di fatto lunga nella maggior parte dei casi più
anni – nei Campi Raccolta Profughi.
Se ne contano in tutta Italia oltre 130. Si tratta in genere di edifici già di pubblica utilità (scuole, caserme,
ex campi di prigionia), ma anche di immobili privati (alberghi e edifici turistici) adattati frettolosamente per
accogliere migliaia di individui. Intere famiglie si ritrovano assiepate in pochi metri quadrati. Lo spazio è talmente ristretto da impedire la sistemazione delle masserizie salvate. Alla sofferenza legata alla loro condizione di profughi spesso, per lo più, mal tollerati dalla popolazione locale, si aggiunge l’afflizione di non ricevere mai più il risarcimento che ogni vittima si aspetta per l’oltraggio subìto attraverso un pubblico riconoscimento del misfatto perpetrato a loro danno e della nobile testimonianza d’amore nei confronti della Patria da essi offerta.
 
Gli esuli istriani pagano, insomma, per tutti gli italiani il secolo dei nazionalismi, degli stermini e dei genocidi.
L’espulsione degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia non è un evento improvviso. Rappresenta l’ultimo
e più drammatico momento, dopo le foibe, di un lungo processo di crescente inimicizia/conflitto che ha
investito le comunità italiane, slovene, croate di queste terre a partire almeno da un paio di secoli.

La cornice istituzionale è tracciata dalla dominazione austriaca subentrata nel 1797 a quella plurisecolare
veneziana. L’habitat politico e culturale è fornito dall’affermazione dell’idea nazionale che nell’800 infiamma
anche i Balcani, come il resto dell’Europa non ancora giunto all’indipendenza. È soprattutto in concomitanza con le tre guerre d’indipendenza del ’48- ’49, del ’59 e del ’66 che cresce la mobilitazione degli irredentisti locali a favore dell’unificazione dell’Istria all’Italia. L’Austria reagisce stringendo il morso sulla comunità italiana.
L’assegnazione della Venezia Giulia, di Trieste, Zara e Fiume all’indomani della Prima guerra mondiale
muta gli equilibri politici e culturali della regione. Grava, poi, sul fascismo la responsabilità di aver reso ancora
più duro e conflittuale il rapporto tra le diverse popolazioni, attuando una politica di snazionalizzazione
che mette ancora più ai margini della vita economica, sociale e culturale l’elemento slavo.

L’invasione della Jugoslavia scattata nell’aprile del ’41 induce l’autorità militare italiana ad usare il pugno
di ferro nei confronti della popolazione nemica. La repressione non fa sconti. Non appena compare un
movimento resistenziale, l’esercito italiano risponde «al terrore partigiano » con «il ferro e il fuoco». Rastrellamenti, trasferimenti forzati, internamenti in campi di concentramento si abbattono su migliaia di croati
e sloveni. La frustrazione, la rabbia, l’odio accumulati in questi anni hanno modo di sfogarsi raggiungendo punte di brutalità inimmaginabili non appena la morsa fascista si allenta. È in corrispondenza allo sbandamento
dell’esercito italiano seguito all’armistizio dell’8 settembre che si scatena nella penisola istriana un’ondata
di violenze a carico degli italiani destinate a condizionare gli esiti futuri.

Si diffonde nella comunità italiana d’Istria un allarme generalizzato.
Il peggio, comunque, è destinato ad arrivare dopo il 25 aprile del ’45. Il truce spettacolo degli infoibamenti
è la premessa dell’esodo. La prima ondata di partenze, a dire il vero, data dal 1942 e investe Zara.
Al momento dell’ingresso, nell’autunno del ’44, delle truppe jugoslave, la città è già praticamente evacuata.
Nel ’45 poi, con la caduta della Repubblica sociale gli esponenti più rappresentativi del partito fascista
e dell’amministrazione italiana non perdono tempo per abbandonare l’Istria. All’«esodo nero» segue, poco
dopo, il primo esodo di massa. È Fiume ad essere investita dall’aggressione da parte delle forze rivoluzionarie
e nazionalistiche giunte al potere in Jugoslavia. Non muove i titini un preciso disegno genocidiario. Li anima
sicuramente la volontà di attuare l’eliminazione di ogni traccia di italianità. Sugli italiani cade la mannaia
dei sequestri, delle confische, dell’epurazione e dei processi politici sommari.
Il punto di non ritorno per un massiccio abbandono dell’Istria da parte della comunità italiana è segnato, comunque, dalla vicenda sofferta da Pola. La città, grazie all’insediamento di un Governo limitare alleato, ha nutrito l’illusione che la sua sorte non fosse compromessa. La decisione sancita dal Trattato di Pace (10 febbraio 1947) di assegnare l’intera penisola istriana alla Jugoslavia tronca per sempre ogni speranza dei polesani di rimanere uniti alla madre Patria. In pochi mesi la città si svuota. Anche se le partenze si scaglionano nel tempo (soprattutto per le difficoltà frapposte dall’autorità jugoslava ad esercitare il diritto d’opzione) la decisione di lasciare l’Istria per la stragrande maggioranza degli italiani diventa irreversibile. Solo nella «Zona B» del Territorio Libero di Trieste, rimasto – come è noto – sotto amministrazione jugoslava, perdura fino al 1954 («Memorandum» di Londra) l’illusione di un ricongiungimento alla madrepatria: illusione, peraltro, rilanciata nel marzo del ’48 dalla dichiarazione tripartita di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia che assicura
il ritorno all’Italia dell’intero Territorio Libero di Trieste.
Negli anni seguenti le partenze dalla penisola non cesseranno, ma senza più raggiungere le punte di un tempo.
Roberto Chiarini

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