Tra gli invitati al convegno internazionale “L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura”, promosso e organizzato dall’Istituto regionale per la Cultura istriano-fiumana-dalmata e dal Dipartimento di Studi umanistici (ex Facoltà di Lettere e Filosofia) dell’Università degli Studi di Trieste, un singolare scrittore si è aggirato per gli spazi del simposio in attesa del suo momento. Lo stesso che avrebbe portato qualche tassello in più per la conoscenza di uno dei più interessanti scrittori di lingua italiana del Novecento: Enrico Morovich.
Il letterato in questione, nelle vesti di relatore, è Bruno Rombi, poeta, scrittore, critico letterario, pubblicista, nonché pittore che da anni cura l’archivio, la figura e l’opera di Morovich. Quest’ultimo nacque a Pećine, sobborgo di Fiume nel 1906 (ma fu battezzato nel 1907), e dopo la perdita italiana di Fiume, scelse la cittadinanza italiana e alla fine di un lungo girovagare (Napoli – Campi Flegrei, Pisa, Busalla, Lugo di Romagna) elesse Genova a sua seconda patria: “e quando di là dai tetti vedo/ la diga lunghissima che chiude/ il porto, m’illudo per un istante/ che del molo lungo di Fiume si/ tratti..” Così scriveva pensando alle case del Righi in “A quante finestre di Genova” (da “I miei fantasmi”, 1998). Nel capoluogo ligure visse fino agli anni ’90. Morì nel 1994 a Chiavari dove si era trasferito negli ultimi anni della sua vita.
Il suo esordio letterario avvenne nel 1929 sulle pagine della prestigiosa rivista di Alberto Carocci “Solaria” con il racconto “Un compagno di scuola” che gli aprì le porte del mondo letterario tanto da essere antologizzato in “Italie magique. Contes surréels modernes choisis” di Gianfranco Contini. Oltre ai numerosissimi racconti pubblicati su prestigiose riviste culturali (collaboratore del “Mondo” di Pannunzio e di “Il Caffè” di Vicari, tra il 1955 e il 1956) e sui più importanti quotidiani italiani si ricordano, nella vasta complessità della sua produzione, opere come il romanzo “Piccoli amanti” (Rusconi, 1990), finalista al Premio Strega nel 1991, e il volume di ricordi “Un italiano di Fiume” (Rusconi, 1993). Una bibliografia così vasta ed articolata da spingere Leonardo Sciascia a scrivere sulle pagine di “Tuttolibri” di un “Caso Morovich”, evidenziando così l’oblio letterario in cui la sua opera era caduta da decenni, a causa del suo peregrinare e della sua naturale scontrosità.
Determinante è stata l’opera compiuta da alcuni critici come Bàrberi Squarotti, De Nicola, Manacorda e soprattutto Rombi, che lo hanno di nuovo inserito nel grande circuito dei maggiori editori italiani, tra cui Einaudi, Sellerio e Rusconi.
“Spleenesaudade di Fiume in alcune pagine di Enrico Morovich”, è il titolo della relazione che Bruno Rombi ha portato al convegno triestino. Tema caro al poeta, nato a Calasetta (Cagliari) e da circa quarant’anni residente a Genova dove svolge intensa attività artistica. Lo sradicamento gli appartiene e probabilmente ne condivide la drammaticità della perdita insieme all’amico fiumano.
Da un’attenta lettura delle opere di Enrico Morovich, riaffiora, seppur parzialmente velato, nella nube di surrealismo in cui avvolge la realtà del suo mondo, un sottile sentimento di nostalgico ricordo. Ne risulta un’atmosfera dolente, che non nasconde del tutto la sofferenza di chi si sente strappato dalla sua terra natale.
“Morovich parlava spesso di Fiume e della sua gioventù trascorsa sulle coste del Quarnero. Più volte, durante le nostre frequentazioni, gli ho consigliato di tornare in quei luoghi a lui tanto cari. Enrico, scuotendo il capo, mi rispondeva ‘Bruno, non insistere. Non è così facile come può sembrare. Andare significherebbe riaprire anche delle ferite’. Ed era e rimase un uomo ferito. Poi persisteva in lui una certa ossessione per un confine visibile e metaforico nello stesso momento. In ‘Un Italiano di Fiume’ (Rusconi, 1993, p.35, nel brano ‘La rete di confine’ N.d.R). scrive: ‘Un prato, un bosco, un agglomerato di cespugli e d’alberelli da sottobosco, nonostante il sole, la bellissima ora pomeridiana, hanno nel ricordo un momento sgradevole, quello in cui penso d’improvviso che a poche centinaia di metri c’è la rete di confine. Il prato, il bosco e il resto rimarranno inutili nella memoria, nulla di magico vi potrà accadere, la fantasia li rifiuterà ogni volta che il pensiero vi passerà di sopra o vicino, soltanto per quella rete di confine. Le fiabe non nascono sulla linea di confine. Esse vogliono germogliare o di qua o di là’”.
“Nella nota lirica ‘A quante finestre di Genova’, contenuta nel volume ‘I miei fantasmi’ (uscito postumo nel 1998 per San Marco dei Giustiniani), scrive: ‘A quante finestre di Genova/mi vorrei affacciare./A tantissime, a mille e più,/tutte che dall’alto guardano/il mare. Ma il caso vuole/che da una altissima mi capiti/d’affacciarmi abbastanza di/sovente. Amici miei abitano/in alto, quasi sotto il Righi/e quando di là dai tetti vedo/la diga lunghissima che chiude/il porto, m’illudo per un istante/che del molo lungo di Fiume si/tratti. Ma per vederlo così/lontano, a Fiume, dovrei essere/ almeno sul colle di Drenova./Quante cose guardavamo in tempi/ lontani con la massima indifferenza/mai più pensando che un giorno/il loro ricordo sarebbe stato/una sofferenza. Mai più pensavamo/che da vecchi avremmo sofferto/di nostalgia per tutta la nostra/ terra da Fiume a Cantrida ad/Abbazia, e che tornando d’estate/in quelle terre avremmo amato/Costrena, Buccari e tutta la Bodolìa’”.
Nel tuo intervento fai riferimento alla saudade, un termine proprio della cultura lusitana che, seppur con diverse varianti, indica una forma di malinconia, uno struggimento cui un poeta di lingua portoghese Chico Buarque, in Pedaço de mim (1977), dà una sua interpretazione: “Saudade é arrumar o quarto do filho que já morreu”, ovvero “La saudade è mettere in ordine la camera del figlio appena morto”.
“In numerosi scritti e nelle stesse opere dello scrittore fiumano, possiamo cogliere espressioni e richiami oscillanti tra il sentimento della saudade, che a volte sconfina in un’acuta nostalgia, e nel rimpianto per quanto lasciato e per sempre perduto. Questo stato di profonda tristezza si fa tormento e prende forma lo spleen, la collera. Questa però subisce una mediazione molto forte in Morovich, che, come sappiamo, era di indole pacifica e di profonda fede religiosa. Tale violenza viene così affidata ad alcuni personaggi dei suoi romanzi. Si veda, a questo proposito, il romanzo “Il baratro” (Rebellato, 1964, ripubblicato da Einaudi nel 1990, N.d.R.), dove violenza, persecuzioni, rabbie e tentativi di vendetta vengono osservati con un tono distaccato, altro non sono che proiezioni della sua collera o della sua nostalgia, della dolcezza del ricordo o del cattivo umore per quanto ha perduto”.
Francesco Cenetiempo
“la Voce del Popolo” 12 marzo 2013