“Lo sento come un dovere, testimoniare è un dovere”. Mario Viscovi ha 93 e lo spirito di un ragazzo. Si illumina non appena gli si chiede di parlare della sua storia, della sua città di origine e, soprattutto, della sua famiglia.
Signor Viscovi, è passato tanto tempo da quando Albona è passata dall’Italia alla Jugoslavia. Come ha mantenuto e come è cambiato il suo attaccamento alla sua città di origine?
Riguardo a questo argomento, la mia vita ha attraversato tre fasi dopo l’esodo: c’è stata una reazione di irredentismo nel 1953 quando Pella ha radunato le truppe al confine ed io speravo nella guerra per riconquistare la nostra terra. Poi, con la maturità, la famiglia e l’impegno del lavoro, non dico che mi sono dimenticato – perché la ferita è sempre rimasta aperta – ma ho mitigato le mie emozioni. In seguito, con la vecchiaia, con l’acquisto di esperienza e con un po’ di saggezza in più, è tornato il grande desiderio di capire, di andare a fondo, di ricordare e ricostruire. Per quanto possibile, è giusto che tutto venga tramandato alle nuove generazioni, che non sanno neanche dov’è l’Istria, che pur è stata considerata Italia fin dai tempi di Dante e prima.
Mi racconti di lei, della sua vita. Più di tanti discorsi retorici e di parole, è la vita che conta…
Ho vissuto in Istria da quando sono nato fino a 18 anni, tranne il periodo in cui ero in collegio a Fiume dai Salesiani. Deve infatti sapere che in Albona, nella mia cittadina, non c’erano i licei e quindi, negli anni più duri della guerra, dovevo recarmi, anche con difficoltà, a Fiume. Ricordo che le strade erano minate e che c’erano tanti pericoli. Nel mio paese avevo la mia compagnia, gli amori giovanili e mi trovavo bene. Poi è successo il patatrac…
Cioè?
Una data infausta da ricordare agli italiani è l’8 settembre 1943. il significato più grave di quel giorno si è manifestato nelle nostre province. I capi sparirono all’improvviso e tutte le forze militari e dell’ordine si ritrovarono senza direttive. Non sapevano da che parte schierarsi. Mentre in Italia la situazione era chiara – o si restava col Re o sotto i tedeschi – da noi era incombente questo comunismo slavo ateo che ci faceva una paura da matti. Non avevamo scelta.
Come ha vissuto quei giorni?
Per me l’8 settembre 1943 è una data da tramandare a vergogna di ciò che è accaduto. Tra ragazzi cercavamo di fare qualcosa, di distinguerci con la coccarda italiana sul bavero, o di tagliare con le pinze i fili di comunicazione degli jugoslavi che avevano già occupato i territori. Erano cose piccole ma volevano essere un segno di rivolta. Appena finita la guerra in Italia – il 25 aprile, la liberazione – da noi era cominciata l’occupazione. Ci siamo trovati in una situazione peggiore della guerra. Qualsiasi scusa era buona per eliminare gli italiani.
E così anche la sua famiglia finì nel mirino…
La mia famiglia, come tantissime della Dalmazia e della Venezia Giulia, aveva più origini. Da parte di mamma, i Negri, siamo italianissimi fin dal 1500. Da parte di papà siamo italiani per lingua, cultura e nazione, ma non etnicamente. Il cognome Viscovi deriva da Viscovich. Come tanti altri nomi, l’origine è croata, tedesca e slovena. La cultura e la nazionalità erano tuttavia profondamente italiane.
Cosa accadde agli italiani dell’Istria?
Nel periodo compreso tra gli anni ‘20 e gli anni ‘40 dello scorso secolo, l’Italia fece grandi investimenti in Istria. Questi fruttarono un benessere e una ricchezza un po’ a tutti, agli slavi e agli italiani (i vecchi sopravvissuti se lo ricordano ancora, con nostalgia). In particolare a mio padre, che ricevette tante aziende dal nonno. Questa ricchezza era invidiata dai comunisti che nella loro logica portavano via le cose agli italiani per darle allo stato. Per prima cosa hanno messo in prigione mio papà e anche mio fratello maggiore che nel ‘45 aveva 20 anni, tre più di me. Quando si entrava in prigione, da noi, sotto i comunisti slavi, nessuno sapeva dove sarebbe finito. Tanti sono finiti in mare, nella baia di Santa Marina, affondati su una barca son dei massi legati ai corpi, oppure nella grande foiba dei Colombi, nel villaggio di Vines.
Cosa accadde a suo padre?
Ricordo che gli fecero il processo del popolo nella piazza principale del paese. C’era gente radunata che gridava in croato: “In foiba!”. Non avevano elementi concreti per accusarlo, quindi lo rimandarono a casa con il sequestro totale di tutti i beni.
Suo papà aveva qualche incarico politico o rapporto con i fascisti?
Mio papà non aveva nessun incarico. Durante la guerra, come tutti, era stato richiamato nella milizia antiaerea, prima a Trieste poi nelle nostre zone; proprio lui, che fra l’altro aveva un difetto alla vista, era stato chiamato per cercare di colpire gli aerei alleati!
Eppure molti storici, per lo più di sinistra, ritengono che le foibe furono una reazione contro i soprusi fascisti…
Negli anni tra il ‘30 e il ‘40, il 98% degli italiani era fascista. Pochi per amore, la maggior parte per convenienza, sennò non si poteva vivere, lavorare. Tutti portavano il distintivo del fascio, quindi anche mio padre e quasi tutti nel mio paese e del contado erano in questa situazione. Ma non furono messi in prigione per questo. Lo imprigionarono perché lo accusarono di essere un collaborazionista dei tedeschi, e non c’erano avvocati difensori. Papà non era un collaborazionista, ma l’obiettivo era quello di sequestrare tutti i suoi beni e di mandarlo via come italiano.
Altre persone della sua famiglia furono perseguitate dai titini?
In carcere mio fratello maggiore ha avuto uno choc fortissimo che gli ha lasciato un segno indelebile. Per uscire dalla prigione, un medico amico gli ha scritto un certificato di tifo, anche per impedire che fosse costretto ai lavori pesanti detti “volontari”. E’ rimasto a casa a letto. In seguito scoprì che, se fosse andato a Capodistria (un centinaio di chilometri a piedi), avrebbe potuto incontrare una signora che, dietro pagamento, lo avrebbe fatto passare clandestinamente dalla Jugoslavia allo Stato Libero di Trieste. Così fu fatto ed è riuscito a venire a Trieste nei primi giorni del ‘47, e poi a Udine, dove io ero arrivato nell’ottobre del 1946. Mia sorella, la terza di noi, è riuscita ad imbarcarsi sulla motonave Toscana ed è sbarcata a Trieste dopo il 10 febbraio 1947. E’ venuta con noi in una famiglia che ci aveva accolti con molto affetto. Mio fratello maggiore, per ripagare un po’ quella famiglia, si era organizzato con altre persone perseguitate: facevano contrabbando. Andavano in treno verso l’Austria, poi superando le montagne d’inverno a piedi, prendevano pietre focaie e copertoni da rivendere a Udine. Alla fine di maggio del ‘47 sono venuti con un permesso anche mio papà, mia mamma e mio fratello minore.
E poi?
Da noi la guerra non è finita nel ‘45 perché infoibamenti sono continuati anche dopo. Le dico una mia convinzione importante: iI nazionalismo e l’odio ideologico disgregano anche le stesse famiglie. Il nostro cognome – Viscovich, poi diventato Viscovi – proviene da San Lorenzo d’Albona. Durante la guerra, dal ‘43 in poi, mio nonno ha avuto un rigurgito di nazionalismo croato. Ha anche aiutato i partigiani nei boschi. Finita la guerra l’hanno fatto sindaco della città, ha ricoperto quel ruolo per alcuni mesi finché non lo hanno destituito perché si era permesso di mandare al comando dei partigiani delle lettere di protesta. Alcuni miliziani entravano nelle case degli italiani portando via le persone e portando via dei beni senza lasciare ricevuta. Inviando queste lettere lui aveva dimostrato coraggio. In seguito a ciò è stato messo da parte, ed è stato costretto a vivere in ristrettezze e da solo. Nel ‘51 è morto. La popolazione che lo conosceva – e che lo aveva stimato perché aveva creato centinaia di posti di lavoro – gli ha tributato un funerale memorabile. E’ morto però abbandonato e disperato: figli e nipoti tutti esuli nel mondo.
Come siete stati accolti dall’Italia?
La maggior parte degli esuli è passata attraverso i campi profughi, dove non si viveva bene. A cominciare dal Silos di Trieste e a tutti quelli presenti nel resto d’Italia. Noi abbiamo avuto questa grande fortuna: tutta la mia famiglia si è radunata vicino a Udine, dove ero rifugiato. Questa famiglia che mi ha accolto non poteva aiutarci tutti ma conosceva bene una signora nobile che aveva una villa situata tra le colline sopra Udine. Il suo parco, bellissimo, era stato sequestrato dagli americani che lo avevano trasformato in comando militare. Quando siamo arrivati noi, a metà del ‘47, gli americani se ne erano andati lasciando la villa in una condizione pietosa. Noi, felicissimi, siamo andati in questa villa. Fu il nostro primo rifugio.
E poi?
Piano piano abbiamo frequentato le scuole, ci siamo cercati un lavoro e così via. Mio fratello maggiore è andato in Australia, io ho ricevuto una borsa di studio per fare ingegneria a Siena ma l’ho rifiutata per lavorare e aiutare la mia famiglia. Abbiamo cambiato casa, ne abbiamo trovata una in affitto a Udine. Nel ‘50 la Shell ci ha cercati e ci ha dato una pompa di benzina sul piazzale della stazione di Treviso. Io e mio papà vi siamo andati in treno con la speranza di essere accettati, con la paura di tornare a Udine a mani vuote. Ci hanno subito dato delle tute e messi al lavoro. Eravamo felici di aver trovato questo impiego.
Non ci sono stati però solo momenti felici…
Nel ‘49 dopo la maturità scientifica sono stato nel Collegio Filzi, dove facevo l’istitutore. Forse a causa di ristrettezze alimentari, presi la tubercolosi. All’epoca era come la lebbra, era contagiosa e tutti ti tenevano lontano. E’ uno dei marchi che mi è rimasto impresso. Ho ancora i segni nei polmoni. Poi sono guarito. Mentre ero a Grado in ospedale è arrivata la streptomicina. Così è stata debellata la malattia, che ha richiesto una lunga convalescenza. Pian piano ho ricominciato a frequentare l’università a Trieste.
E’ in questi anni, se non sbaglio, che conosce quella che sarebbe poi diventata la sua futura moglie…
Esatto, qui, tra Udine e Trieste, ho trovato la donna della mia vita. Ci siamo conosciuti. Avevamo un traguardo lontanissimo, per cui abbiamo iniziato ufficiosamente e poi ufficialmente a essere fidanzati, dal ‘53 fino al ‘58. in questi 5 anni abbiamo avuto la fortuna di vivere sempre lontani con grande ardore di essere vicini. Ci vedevamo saltuariamente perché non avevamo soldi, soprattutto io. La lontananza di un amore grande e il fatto di non poterlo vivere assieme, è stata una grande privazione ma ci ha aiutato moltissimo in seguito. Vorrei trasmettere questi valori ai miei nipoti.
Dopo l’università sono arrivati gli anni della rinascita…
Appena laureato ho trovato immediatamente lavoro. L’Italia era in ginocchio ma c’era il giusto spirito di voler ricominciare. Ho trovato lavoro nel settore dei rivestimenti anticorrosivi. Mi hanno mandato in Inghilterra e nel Galles, dove un’azienda aveva sviluppato questi materiali. Dopo qualche anno, ero già sposato, ho trovato un’opportunità migliore e sono passato all’industria dell’acciaio inossidabile. Mi sono innamorato del nuovo lavoro e mi hanno mandato in giro per tutta l’Europa, proprio quando stava crescendo la Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Intorno al ‘63 mi è stata offerta la possibilità di essere il fondatore di un centro di amalgama per tutti i produttori italiani di acciaio inossidabile, che esiste tutt’ora.
Ma non di solo pane vive l’uomo…
Nel ‘59 ci è nato il primo figlio. In quelle condizioni io e mia moglie cercavamo a Milano luoghi culturalmente validi. Per caso, un compagno di liceo di mia moglie, ingegnere alla Pirelli, ci ha portati a conoscere un ambiente di una congregazione cattolica di giovani donne che si dedicavano all’accoglienza degli studenti d’oltremare per aiutarli a capire e diventare cristiani praticanti. Lì ci siamo trovati benissimo. Questo collega ci ha fatto conoscere anche un centro dell’Opus Dei e sono rimasto colpito da una cosa: poter essere buoni cristiani pur facendo carriera nella propria professione lavorando bene e intensamente. Questo mi è piaciuto molto. E poco dopo anche mia moglie ha apprezzato quella spiritualità per il grande valore che riconosce alla famiglia. E’ stata una svolta della mia vita. Abbiamo poi avuto una figlia, poi un terzo e poi ancora una bambina. Questa piccola è nata nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1966. Quella notte, appena partorita la bambina, mia moglie ha cominciato a perdere sangue, e così per due giorni. Alla fine del secondo giorno era esausta, c’era il forte rischio che morisse. Non sapevamo cosa fare. Ho avuto la grazia per l’intercessione di una ragazza di 16 anni, morta di cancro in quegli anni: Monserrat Grases Garcia. Abbiamo dato questo nome a mia figlia. Riuscimmo a trovare il sangue necessario e mia moglie fu tenuta in vita. Consideriamo questo un miracolo.
E poi?
Abbiamo iniziato a collaborare alle attività di carattere apostolico dell’Opera attraverso i corsi per coppie di orientamento familiare. Facevamo conoscere agli amici, giovani e sposati, l’importanza di prepararsi per vivere una famiglia cristiana, felice, feconda e forte. Con questo lavoro abbiamo conosciuto moltissime persone e con loro abbiamo creato decine e decine di centri di orientamento familiare in tutta Italia. Da qui ci è venuta voglia di fare una scuola per i nostri figli. Il primo agosto del 1974 è nata l’Associazione FAES, Famiglia e Scuola, dalla quale solo sorte alcune scuole. Alcune esistono ancora e fanno del bene, come quelle a Milano. Ho potuto sviluppare collegamenti con enti educativi di tutta Europa. Alla fine del 1983 a Lussemburgo è nata la European Parents’ Association (EPA). Abbiamo fatto un grande lavoro, e ancora adesso ho tanti legami e conservo ricordi bellissimi. Sono rimasto nel FAES fino al pensionamento, quindi mi sono dedicato a famiglia e nipoti. In vecchiaia mi è tornata la nostalgia della mia patria istriana, della storia e dei contatti, per cui mi sono documentato in maniera particolare, anche aiutando un amico rimasto ad Albona per le sue pubblicazioni di carattere storico e sociale.
Cosa direbbe ai giovani che si avvicinano ai racconti dell’esodo?
Nell’ultimo incontro che ho tenuto in un liceo di Milano, ho terminato l’evento con queste parole: “Ieri il capo dello stato, Mattarella, ha detto per il giorno del ricordo: Mai più odio ideologico, etnico e sociale – e ho continuato – Oggi, 10 febbraio, sono andato a Messa per gli infoibati e per gli infoibatori. Il Vangelo della Messa terminava con queste parole di san Marco: Se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate perché anche il Padre che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe.”
di Matteo Carnieletto – 03/06/2021
Fonte: InsideOver
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