Alla fine della guerra da Visinada, dove eravamo stati sfollati a causa dei bombardamenti, ritornammo a Pola. Il nostro ritorno a casa all'inizio fu tranquillo. È stato bello rivedere il nostro mare, ritornare alla normalità, vedere dalla nostra finestra l'isoletta con il faro, andare in barca con mio fratello, andare in spiaggia. La mamma ricominciò il suo lavoro in manifattura tabacchi. Ma tale serenità durò ben poco: nel luglio 1946 si sparse la notizia che i "Grandi", ossia le potenze che avevano vinto la guerra, avevano deciso, con il trattato di pace, di cedere l'Istria e quindi Pola alla Jugoslavia, e tutto ciò mise uno sgomento nell'intera popolazione.
La popolazione cominciò a fare dimostrazioni di italianità, ma tutto fu inutile, nessuno riuscì mai a capire il nostro dramma, quello che sarebbe successo nel futuro. La mia famiglia, in un certo senso, durante il periodo dello sfollamento in Istria aveva avuto l'idea di quale dominio avremmo dovuto subire; oggi, dopo molto tempo, è stato dimostrato che avevamo ragione. Abbiamo visto, in questi ultimi anni, nella guerra in Bosnia, in Serbia, in Slovenia ed in Croazia, quale fratricidio sia avvenuto.
Mamma era disperata: «Cosa dobbiamo fare? Dove andiamo? Cosa faremo?» La nostra decisione maturò quando successe l'eccidio di Vergarolla.
Mi ricordo che, durante la notte tra il 17 ed il 18 agosto, si posò sulla persiana della camera dove si dormiva una civetta, che per tutta la notte non ci diede pace con quello stridulo lugubre. Il giorno 18 agosto mamma aveva deciso di andare a Visinada per alcune faccende ed io l'accompagnai. Prendemmo l'autobus, ma prima di partire decise di lasciare mio fratello più piccolo dalla nonna; mio fratello più grande disse che rimaneva in casa, mia sorella più piccola era in collegio e mio fratello Vitaliano andò con mio zio.
Oggi è molto triste ricordare. La notte che passai in casa della signora che ci ospitò a Visinada non riuscii a dormire, non fu possibile. Per tutta la notte mi sentii spingere da qualcuno e davanti agli occhi mi si presentò la morte; fu una notte terribile, ancora oggi che sono passati oltre sessant'anni non riesco a dimenticarla, ma di questo particolare non dissi mai niente a mia mamma, solo a persone fidatissime. Infatti, qualcosa di tragico era accaduto: il giorno dopo collegai il sogno… no… non un sogno ma una realtà e capii cosa era successo.
Il giorno 18 agosto 1946, il giorno in cui eravamo andate a Visinada, vicino a noi, distante circa un chilometro, si svolgeva una gara di nuoto. Era domenica, la città era sempre occupata dagli alleati e per l'occasione centinaia di persone erano convenute sulla spiaggia di Vergarolla, nella cui pineta giacevano accatastate 28 mine dei tedeschi e dei francesi, prive di detonatori.
Era una manifestazione d'italianità, ma qualcuno causò un eccidio facendo saltare le mine: fu una tragedia in cui morirono circa 70 persone e, tra queste, mio fratello Vitaliano di 14 anni.
Il destino aveva voluto che io e mamma fossimo andate a Visinada, altrimenti anche noi avremmo subito la stessa sorte, perché la nostra intenzione era proprio quella di andar a vedere la gara di nuoto.
Al mattino presto del 19 agosto, ci telefonarono da Pola perché dicevano che mio fratello era ferito, invece era morto. Di corsa andammo a Pola.
A causa dello scoppio delle mine i corpi erano irriconoscibili; mio zio solamente attraverso un cintolino del costume confezionato da mamma poté riconoscere il corpo di mio fratello.
Ci recammo davanti alla camera mortuaria dell'ospedale civile, dove furono allineate all'incirca 70 bare, bare di legno, confezionate velocemente; inoltre c'erano delle piccole cassettine da morto senza nome: erano resti umani. Non si può descrivere le scene dei parenti, l'odore dei disinfettanti, del liquido che usciva, dalle bare fatte in fretta e furia.
Sempre in fretta e furia furono allestiti i funerali, le bare furono caricate sui camion degli alleati, tutta la popolazione partecipò alle esequie delle vittime. Mio fratello lo portarono al Cimitero della Marina, dove fu sepolto con quella cassa provvisoria.
Per mamma fu una vera tragedia che la perseguitò per tutta la vita: non si diede mai pace.
Allora collegai la notte tremenda che avevo vissuto a Visinada: qualcosa di soprannaturale mi aveva spinto lontano da mamma perché mio fratello era attaccatissimo a lei.
Wanda Muggia (Esule)
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Avevo dodici anni quando scoppiarono le mine a Pola, sulla spiaggia cittadina di Vergarolla. Era una bella e calda giornata estiva. Era il 18 agosto 1946, il giorno delle gare di nuoto e di vela della polisportiva Pietas Julia. Tutto era pronto. Era un evento molto atteso dalla città che, dopo gli anni difficili della guerra e seppur con l'ansia per una sorte ancora non scritta tra Italia e Jugoslavia, aveva voglia di ricominciare. Dal porto, un battello faceva la spola con la punta di Vergarolla. Ad assistere alle gare, intere famiglie, genitori, figli, adulti, bambini. Centinaia di persone. Pola era là, quella domenica.
In famiglia si discuteva se andare o no. Non ci sentivamo ancora sicuri. Gli slavi avevano occupato Pola nei primi giorni di maggio e solo con l'accordo di Belgrado del 9 giugno l'amministrazione della città passò nelle mani degli Alleati. Ci aspettavamo che da un momento all'altro i titini, accampati nei dintorni, tornassero. Alla fine, decidemmo di andare. Facemmo il bagno, pranzando, tutti insieme, all'ombra della pineta, spostata in alto rispetto alla spiaggia. Una giornata serena, bella, finalmente normale. Dopo pranzo, rimasti senz'acqua, mi alzai per andare a prenderla: «Vado io», dissi. Così mi incamminai verso la fontanella che si trovava dall'altro lato della pineta.
Avevo tutta la pelle del viso che mi tirava per il sale del mare. Mi abbassai allora per sciacquarmi la faccia e rinfrescarmi. All'improvviso un boato enorme. Avevo la testa sotto l'acqua, non vidi cosa stava accadendo a qualche decina di metri da me. La luce del sole si oscurò per la polvere e la sabbia sollevata dall'esplosione. Sembrava un'eclissi. Era buio come la notte. I detriti erano ovunque. Ancora non riuscivo a rendermi conto di quello che era successo. Subito pensai ai bombardamenti. Ma la guerra era finita. Forse gli slavi, non potevo immaginare.
Quando alzai gli occhi rimasi pietrificata, immersa nella paura. Scappavano tutti. Uomini e donne con i bambini in braccio. Ricordo le grida. E, non so, forse furono proprio le urla a sbloccarmi.
Senza pensare, mi ritrovai a correre verso la pineta, dai miei genitori. Ricordo che una donna tentò di fermarmi. «Dove vai, non andare lì bambina, scoppierà tutto», mi disse. Intorno a me solo panico, persone impazzite che scappavano da qualcosa. Rischiai di essere travolta più di una volta. Era come risalire la corrente di un fiume. Impossibile. Allora, insieme ad altre persone mi riparai per un po' dentro alcune piccole casermette abbandonate. Vergarolla era stata adibita a zona militare durante la guerra. Vidi mio padre ansimante che mi cercava. «Nella, sei qui grazie a Dio», mi disse. «E dove dovevo essere?», gli risposi quasi per giustificarmi. Continuavo a non capire, a non rendermi conto. Eravamo abituati alle esplosioni. Pola durante il conflitto aveva subito molti bombardamenti. Ogni tanto si sentivano ancora bombe o mine fatte esplodere dagli artificieri. «Mamma dov'è? Ma che è successo?», chiesi impaurita a mio padre, che senza dirmi niente mi strinse forte la mano portandomi fuori dalla casermetta. Quando arrivammo alla pineta, capii. Quello che mi si parava davanti agli occhi era un inferno. Non potrò mai dimenticarlo.
Una donna disperata, accasciata a terra, piangeva, piangeva senza sosta. Gridava aiuto. Aiuto per i due figli. Uno era immobile, morto. L'altro ancora si muoveva. Mio padre lo prese in braccio e lo mise all'ombra. Altro non poteva fare.
C'era sangue ovunque. Resti umani seminati dappertutto, finanche sugli alberi. Ricordo ancora i brandelli di carne, poltiglia rossa. Gambe galleggianti in acqua. Una scena terribile! La gente urlava: «Via via! La pineta è minata. Salta tutto qui!». Trovammo mamma sotto un pino. Era completamente ricoperta di sabbia e polvere. Mi abbracciò forte e insieme stretti l'uno all'altro andammo verso il mare. L'acqua aveva assunto un color rubino. In superficie galleggiavano pezzi umani. Orrendo!
A Vergarolla, quella bella e maledetta domenica, morirono un centinaio di persone e altrettante rimasero ferite. Erano tutti civili. Su quella spiaggia, accatastate, si trovavano ventotto mine di profondità, residuato bellico. Erano state disattivate, non c'era pericolo. Stavano lì da tanto tempo ormai. I polesani ci avevano fatto l'abitudine. Erano entrate a far parte del paesaggio. Un brutto ricordo della guerra. Quel giorno la spiaggia era affollata. E molti, per difendersi dal sole, si erano riparati all'ombra delle mine, altri addirittura avevano lì posato vivande e bibite. Esplosero. In tutto nove tonnellate di tritolo. Qualcuno le aveva innescate, trasformando quella bella domenica nella più grossa strage della storia italiana. Ambulanze a sirene spiegate, carretti trainati da cavalli, macchine, tutti i mezzi furono utilizzati per trasportare i feriti dalla spiaggia all'ospedale. Tutta la città si strinse per dare una mano.
Ci furono anche casi estremi di eroismo come quello del medico chirurgo Giuseppe Micheletti, eletto a simbolo della strage di Vergarolla. Era di turno quella domenica. I figli, Carlo e Renzo, di nove e sette anni, erano andati alle gare con gli zii e una cuginetta. Quando giunse la notizia dello scoppio delle mine, Micheletti decise di restare al suo posto. Rimase a operare ininterrottamente per ore con l'angoscia nel cuore, sperando che i figli e i parenti fossero scampati alla tragedia. Il terrore si materializzò quando riconobbe tra i cadaveri i corpi di un figlio, della sorella, del cognato e della nipotina. L'altro figlio era scomparso nel nulla.
Per tre giorni, mi sono svegliata con la terra in bocca. Mi usciva dalle orecchie, dal naso. La schiena, le gambe piene di graffi. Il mio corpo era ricoperto da lividi. Non so neanche come me li ero fatti. Se ci penso ancora oggi, mi vengono i brividi. Sono una miracolata. Per andare a prendere l'acqua, passai proprio di fronte al punto in cui poi esplosero le mine. Questione di pochi secondi e avrei fatto la fine di tutta quella povera gente.
L'indomani i funerali. Tutta la città partecipò in un silenzio irreale. Dignitosa, stretta nel dolore che non era solo dei parenti delle vittime ma di una comunità intera. Il giornale cittadino, "L'Arena di Pola", titolò a tutta pagina, lo ricordo ancora: «Pola è in lutto». In Chiesa, monsignor Radossi disse nella funzione funebre: «Non scendo nell'esame delle cause prossime che hanno determinato un simile macello. Rimetto tutto al giudizio di Dio al quale nessuno potrà sfuggire nell'applicazione della sua inesorabile giustizia. La nostra opera è ben piccola cosa perché i morti sono morti e i dolori sono piaghe che mai più potranno essere cicatrizzate. Questa è la tremenda verità». Le bare erano tante, tutte in fila coperte dal tricolore. Ventuno le salme non identificate. In quattro casse solo brandelli umani.
Quando poi arrivarono gli slavi, di quanto successo a Vergarolla non se ne parlò più. Tanto meno si parlò delle responsabilità. Chi fu a innescare quelle mine? Oggi a più di sessant'anni di distanza sappiamo grazie ai documenti ritrovati nell'archivio britannico del National Archives di Kew Gardens che non fu un incidente, ma un attentato organizzato dall'OZNA, la polizia segreta di Tito. Noi polesani, però, non abbiamo dovuto attendere più di mezzo secolo per sapere chi c'era dietro quella terribile strage. Lo abbiamo sempre saputo. Si è trattato di un sabotaggio organizzato non a caso nel giorno in cui tutta la città si era riversata sulla spiaggia per assistere alle gare.
L'intento è evidente: terrorizzarci per mandarci tutti via, tutti i polesani italiani. Così, anche noi, nell'inverno del 1947, lasciammo Pola, portandoci quel poco che potevamo. Andammo a Firenze, da alcuni parenti. Ma restammo poco. Mio padre moriva di nostalgia. Non riusciva ad abituarsi all'idea di vivere lontano dalla sua terra. Così decidemmo di tornare a casa nostra, a Pola. Non ci volle molto tempo per capire che avevamo commesso un grave errore. La nostra si era trasformata in una città fantasma. Pola, nel frattempo ribattezzata Pula, si era letteralmente svuotata. Su trentamila polesani, partirono circa 28mila persone.
Anche noi, tornando, ci eravamo di colpo trasformati. Nella Jugoslavia di Tito, non eravamo più italiani, ma italiani fascisti. Per gli slavi tutti gli italiani erano fascisti. Optammo due volte per la cittadinanza italiana, per tentare di partire nuovamente. Ma questa volta le autorità slave non ci lasciarono andare e così fummo costretti a rimanere.
Io non ho mai raccontato la mia storia: prima da esule, poi da rimasta. A nessuno mai. Neanche alle mie amiche di scuola più care. È un segreto che ho tenuto nascosto, stretto con me fino a quattro-cinque anni fa. Nella nuova Pola, mi trovavo male. Tutto all'improvviso era cambiato. Noi italiani eravamo diventati una piccola minoranza. Era arrivata gente da tutte le province più remote della Jugoslavia. La nostra lingua era diventata di colpo straniera e non si poteva più parlare. C'era paura a farlo. «Parla croato!», mi dicevano con disprezzo nei negozi, ogni volta che sentivano che in croato riuscivo solo a balbettare qualche parola. Quella lingua non la parlo bene neanche oggi. Non ho voluto. Per noi, è stata una violenza. Una delle tante violenze psicologiche che abbiamo dovuto subire. Piccole discriminazioni quotidiane. Solo da poco, da circa una decina di anni, la comunità degli italiani di Pola ha iniziato a commemorare la strage di Vergarolla. Loro no, i croati probabilmente non sanno neanche chi fu Giuseppe Micheletti.
Nella Smilovich ( Rimasta )