Nell’ottobre del 1943 Cinecittà viene saccheggiata dai nazisti e 16 vagoni merci carichi di cine-attrezzature lasciano Roma, otto con destinazione Germania, e otto per la Repubblica di Salò. Sono oramai lontani i tempi in cui Giuseppe Bottai, grazie al regio decreto-legge 172 del 3 gennaio 1936 che stabiliva la creazione di un “centro industriale cinematografico”, espropria l’area fabbricabile “per cause di pubblica utilità”. L’incarico per l’edificazione viene data all’architetto Gino Peressutti, che in soli 475 giorni di lavoro e utilizzando criteri di costruzione tra i più avanzati e moderni del tempo, rimette nelle mani di Benito Mussolini un opera che per decenni presterà i propri spazi per l’ambientazione di ben 279 film. I teatri di posa sono 16, oltre a una piscina per le scene acquatiche, settori tecnici, ristoranti, strade e piazze, viali alberati, giardini. Ma da quel 27 aprile 1937, giorno e anno dell’inaugurazione del complesso, molta acqua del Tevere è passata sotto i suoi ponti.
La guerra e la fame, che attanaglia la capitale alla vigilia della caduta del fascismo, fanno sì che la città del cinema si svuoti dei suoi 1200 dipendenti per lasciare il posto ad una massa di sfollati e senzatetto che aumenta di giorno in giorno. Cinecittà viene depredata di tutto, legno da bruciare, metallo da rivendere, animali da macellare. Opera che continua con l’occupazione militare della capitale da parte dell’esercito tedesco (“I tedeschi sono ancora a Roma dove hanno occupato anche la città del cinema. I carri armati circolano nei teatri di posa di Cinecittà. Caporali della Wermacht dormono nei camerini delle dive e allietano le ore di ozio sfondando a martellate i bagni e demolendo a colpi di piccone i meccanismi. Quando se ne vanno lasciano dietro di sè il desolante spettacolo di un corpo in rovina”).
Gli anni che seguiranno vedranno l’occupazione degli edifici e degli stessi teatri di posa di una moltitudine di sventurati: sono esuli giuliano-dalmati, ebrei scampati alle rappresaglie, profughi italiani provenienti dalla Libia e dalle altre ex colonie, slavi, austriaci, polacchi, cinesi, tedeschi in attesa di visto per espatriare in Sudamerica o negli Stati Uniti d’America (“Il 6 giugno 1944, immediatamente dopo la liberazione di Roma, gli alleati requisiscono questi studios e li trasformano in uno dei più grandi campi profughi d’Italia. Decine di migliaia di persone sono transitate per Cinecittà, sospese tra un passato atroce e un futuro da inventare. Così i figli dei coloni libici torneranno a Tripoli, gli sfollati di Cassino avranno un’abbazia e una città nuova. Tanti ebrei partiranno da Cinecittà verso la Palestina”).
La fine della guerra porterà nuovo impulso alla cinematografia nazionale e internazionale, ma questa è un’altra storia. Quella dei profughi, tra cui gli esuli giuliani, è una storia dimenticata, che ora affiora in una pellicola di un film scritto da Marco Bertozzi e Noa Steimatsky con il titolo di “Profughi a Cinecittà” (2012, Vivo film, 52′, colore e b/n. Nastro d’argento – Premio speciale 2012 per film coprodotti e distribuiti dall’Istituto Luce Cinecittà), prodotto da “Vivo Film”, una casa di produzione cinematografica indipendente, fondata a Roma nel 2004.
Il film racconta la trasformazione subita da Cinecittà negli anni che vanno dal 1943 al 1950, attraverso l’occupazione nazista, la creazione di un campo profughi da parte degli alleati e, infine, la nascita della cosiddetta “Hollywood sul Tevere”. Il regista Marco Bertozzi insegna Cinema all’Università IUAV di Venezia e fa parte di quel gruppo di autori che, negli ultimi anni, ha contribuito alla riscoperta e alla rinascita del documentario di creazione. L’impegno teorico, le attività didattiche e di promozione culturale del cinema del reale, si uniscono all’attività di filmmaker. Tra i suoi ultimi lavori: “Appunti romani” (Italia 2004, premiato, fra gli altri, al Mediterranean Video Festival di Paestum, all’Ischia Film Festival e a Big Screen Exhibition, in Cina), “Rimini Lampedusa Italia” (Italia 2004, premio Roberto Gavioli per documentari sul mondo del lavoro), “Il senso degli altri” (Italia 2007, vincitore del “Sole e luna International Doc Festival” di Palermo), “Predappio in luce” (2008, in concorso al Film Festival di Roma e vincitore dell’Art Film Festival di Asolo).
L’ultimo suo libro, “Storia del documentario italiano” (2008), adottato in varie università italiane, ha meritato il Premio Domenico Meccoli e il Limina Awards 2009 quale miglior libro di cinema dell’anno. L’altra autrice, Noa Steimatsky, è professore associato di Cinema e Media Studies all’Università di Chicago. Nell’ultimo decennio ha insegnato presso la Facoltà di Storia dell’Arte e Film Studies della Yale University. Le sue ricerche attraversano i rapporti tra cinema e paesaggio, la teoria e l’estetica del cinema, il cinema europeo del dopoguerra, la rappresentazione del volto nel film. Le è stato assegnato il Roma Prize per una ricerca su Cinecittà campo Profughi con l’American Academy (The Cinecittà Refugee Camp 1944-1950, pubblicata in due parti su “Bianco e Nero”, 560, n. 1, 2008, e 561/2, n.2-3, 2008). Ha pubblicato, tra gli altri scritti, “Italian Locations” edito da University of Minnesota Press nel 2008.
Il suo film racconta la metamorfosi subita da Cinecittà negli anni che vanno dal 1943 al 1950, dall’occupazione nazista, poi alla creazione di un campo profughi da parte degli alleati sino alla cosiddetta “Hollywood sul Tevere”. Come è nato questo progetto?
“Tutto ha avuto inizio nel 2004, con la venuta in Italia di una ricercatrice dell’Università di Yale, Noa Steimatsky, con lo scopo di studiare la vicenda dei profughi di Cinecittà. Dagli archivi romani emergevano documenti relativi a storie di uomini e donne che avevano abitato gli studi, situazioni di sofferenza poco conosciute dal largo pubblico e per questo urgeva e nasceva in me la voglia di raccontare questo vissuto in un film. Nel frattempo Naomi aveva pubblicato importanti articoli sulla questione, come ad esempio quello apparso su ‘Bianco e Nero’ nel 2008. Finalmente a cavallo tra il 2010 e il 2011 si presentò l’occasione, grazie anche ad un finanziamento ed un appoggio del Ministero dei Beni Culturali, dell’Istituto Luce e di Vivo Film, una produzione romana. Iniziammo a scrivere il film e nel contempo a ricercare dei possibili testimoni ancora in vita.
Era fondamentale la presenza di testimoni che potessero raccontare la vita degli sfollati di Montecassino, degli esuli dell’Istria e della Dalmazia, di ebrei scampati al massacro e di quelli provenienti dalle ex colonie italiane d’Africa. Questi ultimi vittime inconsapevoli di un regime, che ritenendo possibile una guerra lampo e quindi una facile vittoria, aveva illuso soprattutto gli italiani del sud, i contadini e i braccianti delle zone depresse della pianura padana che, pur di sfuggire alla fame e alla miseria, inseparabili compagne di vita quotidiana, dettero le loro braccia e i loro sogni a una terra che poi li respinse”.
Cinecittà, la cosiddetta Hollywood sul Tevere, che si trasforma per necessità da luogo di sogni a luogo dove trovano alloggio gli sventurati di ogni nazionalità. Ognuno con alle spalle una propria storia e una propria sofferenza.
“Cinecittà è stato proprio il crogiuolo di tante storie e dalle sofferenze tanto diverse. La presenza di tante nazionalità divise in due settori dal filo spinato, voluto per tenere distanti i profughi italiani da quelli stranieri. Immersi in un’atmosfera surreale la loro vita si svolgeva autonomamente da quella che viveva la popolazione della capitale. Erano come racchiusi in un corpo estraneo, senza diritti e alcuna certezza per il futuro. Alcuni di loro furono rimpatriati, altri trovarono alloggio nel nuovo quartiere che stava sorgendo alla periferia di Roma, qualcuno trovò rifugio in Palestina e di tanti si persero le tracce. Dagli elenchi dei profughi trovati a fatica dal lavoro di Noa Steimatsky spuntano anche alcuni nomi divenuti noti in seguito, come Angelo Iacono, produttore di Dario Argento, o Mario Schifano, stimato rappresentante della Scuola Romana degli anni Sessanta”.
Sorge spontanea una domanda: perché il cinema del dopoguerra, soprattutto quello neorealista, non sembrò minimamente interessato a portare su pellicola una tragedia di tale portata che, tra l’altro, si consumava nel cuore stesso della capitale? Sembra quasi che la cinematografia del tempo, come del resto la politica di governo, volesse a tutti costi chiudere i conti col passato.
“Bisogna tener conto che sino ad allora Cinecittà era stata al servizio della propaganda fascista. Nell’immaginario pubblico rappresentava ancora l’emblema di un regime nefasto. Il regista Carlo Lizzani, che era stato al tempo assistente di Roberto Rossellini, mi confessò che in realtà sapevano quasi tutto dell’esistenza di profughi stipati nella città del cinema. Ma d’altronde lo stesso governo italiano, attraverso i cine giornali istituzionali o la Settimana Incom propagandava le visite compassionevoli dell’onorevole Giulio Andreotti ai profughi di guerra di Cinecittà. Gli spettatori vedevano portiere di automobili che si aprivano, una moltitudine di strette di mano e l’immancabile uomo politico che si agitava e si dichiarava solidale verso i sofferenti.
Questi ovviamente non venivano ripresi, non esistevano come figure umane ma solo come presenze evanescenti prive di corpo. D’altronde ‘i panni sporchi dovevano essere lavati in famiglia’! Anche se ci fu una rappresentazione cinematografica abbastanza importante, di cui abbiamo utilizzato alcune parti per il nostro documentario, che fu in parte girata proprio all’interno di Cinecittà. Si trattò di una fiction del 1946, dal titolo ‘Umanità’, diretta dal regista Jack Salvatori (nome d’arte di Giovanni Salvatori-Manners). Il film raccontava la storia d’amore tra un medico americano e una ragazza accolta in un campo profugo. Alcune sequenze, girate per l’appunto a Cinecittà, portarono per la prima volta l’occhio di una cinepresa negli alloggi dove erano stipate centinaia di famiglie, in piena promiscuità e in barba alle più elementari norme igieniche e sanitarie. Ma dove sono finite, mi chiedo, le tante immagini fotografiche, riprese cinematografiche che sicuramente sono state prodotte su Cinecittà e i suoi abitanti? Negli archivi non ci sono, sono state fatte sparire?”
Francesco Cenetiempo
“la Voce del Popolo” 11 febbraio 2013