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Esuli e rimasti: il futuro si costruisce insieme (Voce del Popolo 02nov12)

Esuli e rimasti: a questo problema voglio dedicare alcune considerazioni finali, ultime in ordine di tempo, ma non certo d’importanza, anzi forse le più importanti in vista delle prospettive future. Già all’indomani dell’esodo gli esuli dovettero porsi una domanda cruciale, connessa alla ragione stessa della loro scelta: come salvaguardare l’identità culturale di carattere italiano delle loro terre, identità stravolta, e in certi casi pressoché cancellata, dall’esodo?

Per diversi anni a questa domanda gli esuli risposero alimentando la speranza del ritorno, opponendo la volontà testarda di non accettare come definitivo il fatto compiuto (“volemo tornar!”): lo stravolgimento etnico e culturale delle terre adriatiche perdute era ai loro occhi una parentesi storica, che prima o poi si sarebbe chiusa col ritorno alla situazione precedente.

 

Salvaguardare l’identità italiana delle terre perdute significava allora, innanzi tutto, non perdere la speranza del ritorno. Nel modo più nobile questa speranza prese la forma di appelli alle norme del diritto internazionale e al principio dell’autodecisione dei popoli, appelli e proteste in cui si esprimeva una sorta di fiducia ingenua se non nei principi astratti della giustizia, certamente negli organismi internazionali che di questi principi pretendevano di essere i garanti.

Un arroccamento testardo senza prospettive, quindi, e uno sterile rifiuto della realtà? Niente affatto. Fu proprio questo “arroccamento” a rendere possibile la grande opera di salvaguardia della memoria compiuta dalle associazioni degli esuli. Fu proprio questo preteso rifiuto della realtà a produrre il miracolo di salvare e custodire integralmente quell’altra realtà che la furia iconoclastica del totalitarismo mirava a cancellare del tutto, anche e soprattutto nella coscienza delle nuove generazioni, a Fiume nelle terre adriatiche perdute e nella stessa Italia.

 

I nuovi padroni di Fiume e delle terre adriatiche perdute considerarono per anni l’esodo come o qualcosa di non avvenuto, un non-evento su cui stendere una cortina di silenzio, o un evento politicamente condannabile e marginale, da ascrivere all’influenza persistente del fascismo e alle mene della “reazione”. Il regime comunista jugoslavo riscrisse la storia a partire dal 1945 come da un punto zero e, andando a ritroso, cancellò sistematicamente tutto ciò che non corrispondeva alla nuova visione ideologica.

 

Per limitarci a Fiume, tutto fu brutalmente cancellato, a partire dai simboli che da secoli, sotto tutte le dominazioni politiche, ne avevano segnato l’identità: vennero cancellati lo stemma municipale, l’aquila bicipite e il motto latino, la bandiera della città, i Santi patroni, pressoché tutti i toponimi (non solo i pochi introdotti dal fascismo) e così via. La nuova Rijeka non doveva avere nulla a che fare con la Fiume storica, che non era mai esistita: era esistita da sempre la croata Rijeka, dalla quale peraltro veniva rimosso anche tutto ciò che poteva disturbare la coerente riscrittura ideologica della sua storia, come, per esempio, la grande tradizione del cattolicesimo croato. Bisognava insomma non soltanto cancellare la storica presenza italiana nella città e ridurre la plurietnica e multiculturale Fiume a Rijeka, ma anche ridisegnare la croata Rijeka secondo i nuovi canoni marxisti-leninisti.

 

Non sorprende che in una situazione del genere, durata a lungo, perlomeno fino alla caduta del muro di Berlino, tra esuli e rimasti ci fosse una barriera. Agli occhi della maggior parte degli esuli gli italiani rimasti erano semplicemente complici di quanto avvenuto e del processo di snazionalizzazione in atto. E dai rimasti gli esuli venivano in genere classificati, in base alle categorie dell’ideologia, come fascisti e nostalgici, pericolosi irredentisti, e comunque strumenti, più o meno consapevoli, della reazione capitalistica. Ma anche allora nel mondo dell’esodo c’era chi si rendeva conto del carattere ambivalente, tragico appunto, dell’esodo: da un lato, un plebiscito di italianità di inestimabile valore, un impegno di conservazione e difesa della memoria storica che sarebbe stato impossibile nel contesto poliziesco del regime comunista; da un altro lato, però, l’esodo dalla città d’origine, ben presto ripopolata da gente nuova, ne aveva inevitabilmente favorito lo stravolgimento della fisionomia etnica e storica.

 

Ma allora la presenza degli italiani rimasti non andava forse vista come un fatto comunque positivo? Non costituivano questi italiani rimasti, pur pesantemente condizionati sul piano ideologico, una difesa oggettiva dell’italianità autoctona? E non bisognava poi operare tra i rimasti una serie di distinzioni? Alcuni erano stati semplicemente costretti a rimanere, perché la loro domanda d’opzione era stata respinta; altri avevano condiviso anche le imposizioni più snazionalizzatrici, ma altri ancora si erano opposti in vario modo fino a pagare per questa opposizione un prezzo pesante sul piano politico e personale.
E più in generale: non era necessario cercare di comprendere le motivazioni dei rimasti e inquadrare le loro scelte, spesso drammatiche e contraddittorie, nel più ampio contesto storico costituito dalla tragedia del comunismo novecentesco? Non sarebbe stato allora opportuno avvicinarsi in qualche modo ai rimasti, cercando con essi un’intesa, un terreno comune, che non poteva essere se non quello della difesa dell’identità culturale di carattere italiano dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia?

 

Compito questo tanto più indifferibile quanto più, col passare degli anni, la speranza di un ritorno fisico e di una modifica dei confini si rivelava sempre più illusoria. E, viceversa, anche nel mondo dei rimasti, passata l’ubriacatura ideologica e man mano che l’utopia palingenetica dell’”uomo nuovo” si dissolveva di fronte alla realtà fallimentare del socialismo realizzato, ci si rendeva conto del grande significato storico dell’esodo, si comprendeva che solo l’esodo aveva consentito la conservazione – a vari livelli, da quello del vissuto quotidiano a quello storico, scientifico e museale – di quella medesima identità culturale di carattere italiano per la quale molti rimasti si erano battuti e si battevano tra gravi difficoltà e a prezzo di rischi personali.

 

Non sarebbe stato allora opportuno cercare un qualche collegamento col mondo degli esuli – che era poi anche il mondo dei parenti, dei compagni di scuola, di lavoro, degli amici di coloro che avevano scelto di rimanere –, riconoscere il ruolo essenziale da essi svolto nella custodia delle città e dei luoghi della memoria e cercare quindi forme di collaborazione in vista dell’obiettivo comune? Oggi, ad oltre vent’anni dal crollo del muro di Berlino e dopo anni di dialogo e di confronto, queste considerazioni sono diventate patrimonio comune di buona parte del mondo degli esuli e del mondo dei rimasti e si traducono sempre più in iniziative concrete.

A ciò va aggiunto che il recupero dell’identità culturale di carattere italiano di Fiume riguarda naturalmente anche i croati e la cultura croata, se l’attuale Rijeka vuole riacquistare in uno spirito europeo la sua identità, che non è pensabile senza la valorizzazione integrale della storia della città. Che ciò sia possibile è documentato, per esempio, dalla pubblicazione realizzata dalla Società di Studi Fiumani insieme all’Istituto Croato per la Storia di Zagabria su “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947)” pubblicata nel 2002.

 

Per far rivivere, dunque, nelle nuove condizioni della attuale Croazia democratica, l’identità culturale di carattere italiano di Fiume o, meglio, quello che di questa identità è rimasto o è recuperabile, è indispensabile portare fino in fondo la ricomposizione dei due tronconi della comunità fiumana, una ricomposizione che è culturale e politica in senso alto e nobile e anche umana, perché nutrita di affetti, ricordi, legami comuni che si perdono nel passato. Ricomposizione deve significare collaborazione organica delle due componenti della comunità fiumana, gli esuli e i rimasti.

 

Era ed è infatti evidente, da un lato, che l’identità culturale di carattere italiano di Fiume non poteva e non può essere efficacemente difesa se non a Fiume, nei luoghi storici in cui essa si è formata nel corso dei secoli e dove continua ad esistere una comunità italiana autoctona. Questa comunità, nel suo rapporto con la città e la sua antica anima, a cominciare dal dialetto, costituisce, di per sé stessa, il testardo documento della permanenza di tale identità sul territorio.

Ed era ed è altresì evidente, da un altro lato, che non era e non è possibile parlare di identità culturale di carattere italiano di Fiume senza gli esuli fiumani, ossia senza quella parte (il 90% degli abitanti, pari ad almeno 38.000 persone) che nel 1945 e negli anni successivi, proprio per difendere questa identità, aveva intrapreso la dura strada dell’esodo in Italia e fuori d’Italia.

Ecco perché la collaborazione tra esuli e rimasti è una vera e propria necessità storica. Significativa testimonianza di tale necessità è proprio questo Raduno (il riferimento è all’evento di Montegrotto, nella primavera di quest’anno, quando l’autore tenne la presente “lectio magistralis”, ndr), da cui dovranno scaturire iniziative concrete comuni sempre più incisive ed efficaci. (10 e fine)

 

Giovanni Stelli

“la Voce del Popolo”  2 novembre 2012

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