RICORDI di Bruno Tardivelli
Il 3 maggio del 1945 a Fiume
La mattina del 3 maggio del 1945, verso le 10, mentre a Fiume stavano entrando le prime truppe jugoslave, fui convocato dal Profeta, il mio amico-protettore bardato da ufficiale jugoslavo, a causa del quale ero stato imprigionato dalle SS tedesche dove avevo rischiato grosso, e lo dovetti seguire all’assemblea del CiPiCi, che non sapevo cosa fosse e lo capii più tardi : era il Comitato popolare cittadino, cioè una specie di Giunta comunale in salsa comunista, che aveva sede naturalmente nel Municipio.
Come turchi alla predica
Il mio Profeta mi condusse in un salone al piano terra, dov’era in corso un’affollata assemblea presieduta da un signore, pardon, un compagno distinto, con la barbetta che io conoscevo di vista: aveva un negozio ben fornito di tessuti in Cittavecchia: si chiamava Kordich. Era attorniato da ufficiali jugoslavi ed altri personaggi armati, tutti con l’immancabile bustina detta “partizanka” in testa. Parlavano in croato, che io capivo molto poco.
Ogni tanto davo una gomitata al mio amico, per chiedergli quale fosse l’argomento del dibattito. Ma quello mi zittiva, dicendomi di stare buono. Forse non capiva gran che nemmeno lui. Alla fine tutti applaudirono calorosamente per approvare di un documento che, seppi poi, proclamava l’annessione di Fiume alla Jugoslavia, in nome del popolo fiumano che era, a onor del vero, all’oscuro di tutto. Giacchè applaudivano tutti, fummo indotti pure noi due a fare altrettanto, non ne potevamo fare a meno. Uscimmo di lì come i turchi dalla predica. Avevamo afferrato un’accozzaglia di parole croate che significavano: libertà, democrazia, lotta, fascisti, morte, popolo, giustizia, Tito, Stalin, e non so cos’altro ancora. Ma quali altre decisioni si dovessero prendere, quali erano le direttive, non lo avevamo compreso.
La bandiera italiana con la stella rossa
Usciti di lì andammo in Corso. Era tarda mattinata. Vedemmo transitare per via Garibaldi le prime truppe jugoslave ben armate, con le divise in disordine.
Correva voce che i più scalcinati li facessero passare da Cosala per Valscurigne, senza attraversare il centro. A qualche finestra comparve anche una bandiera italiana con in mezzo la stella rossa, una cosa mai vista prima d’allora. La gente che faceva ala al passaggio dei soldati che marciavano fieri, li osservava silenziosa; qualche applauso e qualche raro grido di evviva non avevano alcun seguito: cadevano nel vuoto.
Se i partigiani si attendevano un’accoglienza calorosa dai fiumani, restarono molto delusi; si guardavano sbalorditi attorno, levando la testa verso le case. Sembrava che non avessero mai visto in vita loro una simile città. La comparsa dei nuovi venuti non fu per la maggior parte dei fiumani una giornata di festa.
Andammo in Piazza Dante. Vi trovammo un po’ di gente. Non c’era gran ressa ma tanta attesa. Verso mezzogiorno dall’ex Casa del fascio, proprio dallo stesso posto dal quale teneva i suoi concioni mussoliniani il “federale servidori”, si affacciò un ufficiale jugoslavo, circondato da numerose persone. Ci tenne un discorso con voce enfatica, in lingua croata. I più si guardavano in faccia con espressione frastornata e non comprendevamo nulla. Ci sembrava strano che l’oratore si rivolgesse a noi in quella lingua. Qualche crocchio isolato applaudiva entusiasta e in croato gridava : “Tako je !” (Così è) . Nessuno degli altri presenti gli faceva eco. Terminato il suo discorso, incomprensibile ai più, il personaggio inneggiò, sempre nella sua lingua : “Živio drug Tito, živjela naša armija, živio drug Stalin, živjela Crvena armija ! Živjela naša Rijeka” (Evviva il compagno Tito, evviva la nostra armata, evviva il compagno Stalin, evviva l’Armata rossa , evviva la nostra Fiume). Pochi si sgolarono per rispondere a quegli evviva. Gli altri stettero muti e si squagliarono facendo spallucce, con l’espressione attonita. Io, il mio amico e altri fiumani con noi, attendevamo che qualcuno dal balcone facesse un discorsetto, anche breve, in lingua italiana. Ma restammo delusi.
Il balcone della Casa del fascio si svuotò. Al centro della piazza rimasero gli entusiasti. Altri ne arrivarono, quasi di corsa. Era gente che veniva da “oltre Ponte”, chiamata di rinforzo, visto che l’entusiasmo languiva. Gli entusiasti formarono un largo cerchio, tenendosi per la vita, uno con l’altro ed iniziarono in coro una cantilena di poche note che si ripeteva in continuazione, ed una danza in cerchio a passo ritmato: era il “kolo”, un ballo nazionale che noi mai avevamo visto né inteso prima d’allora per le piazze di Fiume. La tiritera col passare dei giorni ci perseguitò in ogni occasione, come una sorta di beffa, e la udimmo per tutto il tempo che rimanemmo nella nostra città, diventata ormai la loro. Al girotondo partecipavano anche ragazze mie coetanee che ben conoscevo e con le quali ero in confidenza; amiche con le quali avevo scherzato tante volte e recitato alla filodrammatica. Ero stupito nel vedere com’erano coinvolte in queste vicende molto più di me, ed in passato avevano saputo dissimulare tanto bene i loro pensieri. Erano Giannina, Etta, Gioia, Sonia, Nella, Dina. Mi girai per cercare l’amico Profeta che mi aveva condotto lì e che avevo visto accanto a me per quasi tutto il tempo: si era dileguato, senza nemmeno dirmi ciao. Mi venne il nervoso, mi sentii a disagio. Alcune ragazze mi chiamavano a fare parte del chiassoso girotondo, tutto allegro, dal quale prorompevano risate, inviti, abbracci, ammiccamenti in lingua croata ed in italiano. Non raccolsi l’invito a quella danza, ci mancava altro, mi sembrava zotica, incolta e prepotente. Io ho sempre amato lo slow e il tango.
Un gatto sbrovado
Me ne andai, come un “gatto sbrovado”, scottato dall’acqua bollente, verso la Riva; appena fuori dalla vista di tutti mi tolsi la “partizanka” e me la misi in tasca; non mi era stata troppo familiare fin dal principio, ora mi era già diventata ingombrante.
Finalmente ero uscito da quell’imbarazzante confusione. Passai davanti al caffè Centrale, ritrovo dell’elite fiumana. Il locale appariva chiuso, dimesso, alcuni soldati avevano preso posto attorno ai tavolini bianchi e ci tenevano i piedi sopra, dopo essersi tolte le scarpe. Volgendo lo sguardo verso il mare, osservai che non c’era più, il monumento che sosteneva il leone di San Marco, dono della città di Venezia. Una mina tedesca aveva spazzato via tutto. La diga era squarciata in più punti. Le mine avevano provocato larghe voragini.
Lambito dalla risacca, in una di queste, di fronte all’idroscalo, dov’era stata la sede della Lega navale, un cadavere vestito di un abito grigio giaceva riverso tra le pietre. Aveva la testa rivolta verso la battigia, le piccole onde gli lambivano i capelli castani, era senza scarpe, le braccia aperte, quasi in croce.
Un gruppo di uomini osservava silenzioso, qualcuno diceva che bisognava toglierlo di lì.
Un tale, con un impermeabile chiaro ogni tanto commentava ad alta voce, in dialetto fiumano, in modo che lo sentissero coloro che si soffermavano a guardare : “Cussì deve finir tutti i nemici del popolo! Bisogna coparli tutti !”
Fui percorso da un senso di smarrimento; quella persona era stata giustiziata senza un processo, una sentenza, come avevano fatto nazisti e fascisti. Era stato assassinato. Ma allora. Mi chiesi, quale differenza c’era tra questi e quelli?
In quale mondo vivevo se dittatura e libertà, in occasioni simili si confondevano in tale maniera e offrivano lo stesso tragico spettacolo? Ritornai a casa per il marciapiede più solitario del viale; dovevano essere le 13, avevo brutti presentimenti. Qualche gruppetto chiassoso s’avviava verso il centro.
Una volta a casa raccomandai ai miei fratelli di non uscire. Era trascorsa appena mezza giornata di quel primo giorno della liberazione, anzi, della “sloboda”: era il 3 maggio 1945.