di Giordano Bruno Guerri*
Se l'impresa di Fiume appartenesse alla storia di altri Paesi, verrebbe ricordato spesso, e anche celebrato, come un'avventura epica, straordinaria. In Italia, invece, tendiamo a nasconderla o a trattarla con leggerezza, quasi fosse una vergogna. Non lo fu, anzi: oltretutto, comportò il passaggio all'Italia della città, poi purtroppo persa con la Seconda guerra mondiale. E fu un episodio che merita di essere ricordato anche soltanto per l'entusiasmo e la purezza di molti suoi partecipanti, che ci andarono con vero spirito di amore, insieme patriottico e rivoluzionario.
Invece, l'impresa fiumana è stata vista per lo più come un'anticipazione del fascismo, una specie di preludio alla marcia su Roma. Fu anche questo, nel senso che Mussolini capì da quell'azione la possibilità di sfidare con la forza lo Stato e vincerlo. Il duce prese da d'Annunzio riti, miti, modi e slogan, ma il rapporto con il fascismo finisce qui. Esiste, piuttosto, una documentazione ricchissima su quanto Mussolini si sia tenuto lontano dall'impresa, pur sostenendola dal suo giornale; e su come abbia raccolto fondi destinati alla «Città Olocausta», che poi sarebbe riuscito a tenere, in gran parte,per sostenere il fascismo.E celebre la lettera speditagli da d'Annunzio, piena di accuse, che il duce pubblicò tagliata e rimontata in modo che sembrasse una lettera di lode.
Ancora una volta – come prima e durante la guerra – d'Annunzio era diventato il sacerdote di una religione della patria, mistica e popolare insieme. Molti gli credettero quando diceva che era possibile far rivivere la magnificenza italiana. Il suo eroismo in guerra aveva colmato l'abisso fra masse e intellettuali, e lo aveva reso attendibile più di qualsiasi uomo politico, perché alla politica aveva portato la spiritualità e l'eroismo che mancavano agli uomini di governo. Si capisce dunque come il dannunzianesimo acquisisse ulteriore fascino, al termine di una lunga e non improvvisata gestazione, presso molta parte della borghesia. Era la borghesia a trovare in lui, prima che iniziasse a brillare l'astro di Mussolini, l'Uomo capace di offrire al Paese sogni di gloria e di grandezza collettiva.
Anni prima il Vate aveva scritto, pensando a sé come a un condottiero del Rinascimento: «Veramente, nella nostra anima moderna, l'amore della città da forzare e da prendere è smarrito. Immagino il lampo della cupidigia nell'occhio del venturiero quando, allo svolto d'una via, al varco d'un monte, appariva la faccia della città promessa. Certi capitani dovettero conoscere una sorta di lussuria ossidoniale». Il 12 settembre del 1919, alla testa dei suoi «legionari», occupò Fiume sfidando, oltre al governo italiano, tutte le maggiori potenze mondiali, che avevano deciso di assegnare la città adriatica alla Jugoslavia.
D'Annunzio terrà la città per sedici mesi, nonostante l'assedio dell'esercito italiano, e applicò tutta la sua fantasia per dare nutrimento a legionari e cittadini, per esempio inventando gli «uscocchi», che individuavano navi cariche di materiale utile alla sopravvivenza della città e – veri pirati moderni – le deviavano verso Fiume. Poi, nel dicembre del 1920, Giolitti sentì venuto il momento di interrompere l'impresa con la forza. E forza fu, con decine di caduti da entrambe le parti, morti non ricordati dalle patrie memorie, perché in Italia si rinnega volentieri di avere avuto delle guerre civili, dal brigantaggio post-unitario a quella che concluse la Seconda guerra mondiale.
Quanto al desiderio di d'Annunzio di conquistare il potere a Roma, di certo ambiva a diventare il duce dell'Italia prima ancora che la parola diventasse così di moda, ma senza un piano strategico preciso. Pensava che un giorno il re non avrebbe potuto far altro che convocare lui. Aspettò anche dopo Fiume, invano: Mussolini vinse, conlesuesupe-riori capacità politiche e con l'uso della violenza.
Ben più degli aspetti politici, di Fiume è interessante l'aspetto sociale – rivoluzionario in senso libertario – riscoperto negli ultimi anni soprattutto dopo il saggio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione (il Mulino). Fiume fu anche un esperimento di libertà, di un modo nuovo di in-tenderela vita, con maggiore autonomia e libertà personale: di comportamento, di sessualità, di visioni del mondo. Oltre alla Lega di Fiume, che doveva unire i popoli oppressi, d'Annunzio promulgò la «Carta del Carnaro», ovvero la nuova Costituzione, scritta insieme al sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. E una delle Costituzioni più avanzate dell'intero Novecento, e basti dire che prevedeva il suffragio universale, la valorizzazione dei giovani, il federalismo, il multietnismo, la cultura, la bellezza, la musica come beni fondantie irrinunciabili di un popolo.
A Fiume l'arte si faceva gioco, la politica diventava bellezza scanzonata e acrobazia, mentre si conduceva l'esistenza in un vitalismo che aveva molto del godimento dissipato e moltissimo del nichilismo frenetico. Tra la folla di eroi e spostati, d'Annunzio accolse nel suo entourage talenti inquieti che alimentavano i loro sogni di rinnovamento morale e di diversità attingendo al fecondo braciere del Vate. A buon diritto d'Annunzio poté entusiasmarsi per avere plasmato la sua città ideale, dove tutto poteva essere sperimentato e l'avanguardia non aveva limiti all'espressione. Intorno a sé aveva figure bizzarre e fuori dall'ordinario, uomini d'azione, idealisti senza niente da perdere, milionari in cerca di emozioni e giovani che si presentavano a lui come davanti a un oracolo. «La sorte mi ha fatto principe della giovinezza sulla fine della mia vita», mormorò un giorno Gabriele, beato.
E un bene che negli ultimi mesi siano usciti, oltre a un'edizione de La Carta del Carnaro (Castelvecchi Editore), ben tre romanzi ambientati nella Fiume dannunziana. E uscito in questi giorni anche Fiume. L'ultima impresa di d'Annunzio (Mondadori, pagg. 238, euro 23), un bel volume fotografico, di grande formato, cui il Vittoriale ha contribuito, e che contiene anche decine di fotografie provenienti dalle famiglie dei reduci, quindi inedite. Ottime anche l'introduzione e le schede che inquadrano i numerosi argomenti: tutte tranne una, quella sul «poeta-soldato»; accurata nell'elencare i meriti letterari, militari, sociali, estetici e creativi del Vate, abbonda di ironia sugli aspetti erotici e sul comportamento economico di d'Annunzio: è un cliché usuale, scontato e ammuffito, e non tiene conto che -anche in quegli aspetti- il poeta fu un anticipatore della vita contemporanea: la nostra. Peccato per la scivolata, ma ben venga il nuovo libro. Il Vittoriale è particolarmente interessato a questi studi, che ha sostenuto, sostiene e sosterrà in modo sempre più sostanzioso.
A Gardone Riviera, dentro al Vittoriale, abbiamo un Archivio fiumano che ovviamente è il più importante al mondo, anche perché d'Annunzio portò qui gran parte delle sue carte di capo dello Stato, comprese quelle ministeriali. Oltre a migliaia di fotografie ancora su lastra e mai tolte dalla carta velina che le avvolge, esistono le schede dei legionari e infinite curiosità documentarie. L'Archivio fiumano, sempre a disposizione degli studiosi, è in corso di riordino e di digitalizzazione, e sarà interamente consultabile via internet. Insomma: proseguano, accelerati, gli studi. Ma l'impresa ha bisogno di essere conosciuta anche popolarmente, e credo che su Fiume si debba realizzare un film. Non un documentario come ne esistono già, bensì un vero film cinematografico o televisivo: perché è una storia fantastica e romanzesca, da trarne mille trame appassionanti e di successo. Il Vittoriale, fornirà ogni possibile aiuto.
*Presidente del Vittoriale degli Italiani