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”Foibe: l’ultimo testimone” (Rinascita 09 mar)

di Gianluca Padovan

Recentemente è scomparso Graziano Udovisi, che nacque a Pola nel 1925. Ma non prima di averci lasciato, per iscritto, una sua diretta testimonianza sulle foibe con il libro: Foibe l’ultimo testimone (Aliberti Editore, Roma 2010). La sua vicenda non era ignota, infatti era stata precedentemente pubblicata da Giulio Bedeschi nel libro Fronte italiano: c’ero anch’io (vol. 1°, Editore Mursia, Milano 1987). Ma questo libro di Udovisi, piccolo, semplice, lineare, parla in prima persona della sua vicenda di ufficiale che viene torturato e gettato nella foiba di Fianona da partigiani titini: “Quando si viene colpiti nelle varie parti del corpo, dopo qualche tempo non si sentono più le sevizie perpetrate a mani libere, con bastoni e fruste di fil di ferro attorcigliato usate a mo’ di staffili”. Ma ne esce, assieme ad un commilitone, e ne racconta l’incredibile momento: “Dopo ogni infoibamento i partigiani slavi avevano la singolare abitudine di gettare nel crepaccio un cane nero, ancora vivo, un gesto scaramantico det
tato dall’antica credenza che l’animale avrebbe fatto la guardia alle anime di tutti gli infoibati in modo tale che non disturbassero i loro sonni”. Riesce a raggiungere l’Italia, dove è messo in prigione: “Togliatti ci voleva fra i detenuti comuni e non fra i politici”. Che altro dire? Leggetelo.
Intanto, a proposito del cane gettato vivo nella foiba dopo gli infoibati, non posso fare a meno di ricordare un episodio, risalente ad almeno una decina di anni fa. Un siciliano, residente a Milano, ma fortemente innamorato della propria terra d’origine, mi contattò per propormi di eseguire delle indagini a carattere speleologico presso Capo Passero e l’omonima isola. Dipinta da parole sognanti come gioiello incastonato nella parte più a sud della Sicilia, tra mare Mediterraneo e mare Jonio, l’Isola di Capo Passero è caratterizzata da una fortezza medievale, dai presunti resti di un tempio forse greco e dalla storia dell’istmo di sabbia che un tempo la collegava alla terra siciliana. Qui, in faccia ai due mari, giacciono più o meno abbandonate numerose fattorie, tutte con un proprio pozzo, quindi materia adatta allo studio sull’approvvigionamento idrico nelle epoche passate. Magari poteva pure saltare fuori un antico acquedotto ipogeo, di cui qualche pozzo poteva costituire il punto di presa, analogamente a quanto si è verificato in numerose località italiane, come ad esempio a Bologna oppure a Tarquinia. Chiesi se avesse foto dettagliate dei pozzi e con un gran sorriso le estrasse dalla voluminosa cartelletta, dicendo che erano poco profondi e alcuni ancora con l’acqua. Un paio di scatti m’incuriosirono. Cos’era quella roba bianco-grigiastra che galleggiava sull’acqua di due pozzi? Un po’ imbarazzato il siciliano mi rispose che erano pecore morte. Le carogne d’animale certo non invitano all’esplorazione speleologica e tantomeno a quella speleosubacquea, non foss’altro che per motivi d’igiene. Ma non era tutto: alle mie incalzanti domande per ottenere un chiaro quadro della situazione mi disse che probabilmente, sotto ogni pecora morta, vi era il cadavere di una persona che era stata ritenuta scomoda o che aveva, come si suole dire, “sgarrato”. Difatti, soggiunse, era usanza gettare in una cavità il malcapitato e buttargli sopra un animale, preferibilmente una pecora, a significare che era ancor meno di un’animale e quindi meritava di stargli “al di sotto”. Declinai graziosamente l’invito del signore a studiare le sue terre e rimasi a casa mia.

Tornando all’oggetto dell’articolo, in ambito speleologico sarebbe interessante poter dare luogo a un convegno o addirittura a un congresso sulle foibe, ma al momento il terreno non pare ancora fertile. Ovvero sono stato sconsigliato dal farlo, in quanto non avrei trovato relatori, tra gli speleologi, disposti a parlare di quello che hanno visto, o che ancora adesso vedono, in talune grotte. Circa dieci anni fa uno speleologo mi raccontò però di un episodio capitatogli sull’Altopiano del Cansiglio (Veneto). Dopo alcune ricognizioni di superficie avevano individuato un bel buco tra prati e rocce (inghiottitoio), che scendeva verticale per decine di metri: finalmente una grotta nuova! Tornarono la domenica successiva con le corde e tutta l’attrezzatura necessaria per l’esplorazione, ma non fecero alcunché. Intanto che indossavano le imbragature e preparavano gli ancoraggi per la corda che li avrebbe condotti ad esplorare i recessi della Madre Terra, si avvicinò un gruppetto di anziane persone, accompagnate da qualcuno un po’ più giovane. Dissero che era meglio per loro, se desideravano tornare a casa la sera, non calarsi nella grotta. In caso contrario avrebbero tagliato la corda, lasciandoli dentro.

Lui, l’autore del racconto, avrebbe forse parlato di foibe, magari con qualche riserva per motivi suoi personali che per educazione non ho indagato, ma è venuto a mancare: sicuramente mi racconterà ogni dettaglio quando ci reincontreremo nell’aldilà.

Ma, in definitiva, che cos’è una foiba? Ecco quanto ho scritto recentemente. La foiba è una dolina tipica del carso istriano, sul cui fondo si apre un inghiottitoio. Deriverebbe dal latino fovea, che indica l’antro, la grotta, la fossa. La foiba è legata agli eccidi di civili e militari avvenuti tra l’Istria e il carso triestino e giuliano dopo l’8 settembre 1943 e fin’oltre il termine della Seconda Guerra Mondiale. Numerose foibe contengono tutt’oggi i resti delle salme. In un recente libro di Rumici si può leggere il seguente passo: “Nello stesso periodo in cui i partigiani di Tito arrestarono, deportarono ed uccisero le migliaia di italiani di cui si è detto a proposito della Venezia Giulia, analoga sorte riservarono, in Slovenia e Croazia, ad un numero ancora maggiore di sloveni e croati che furono parimenti massacrati in questo caso per motivi non nazionali, ma solamente ideologici, in quanto avversi all’instaurazione di un regime di stampo comunista nella nuova Jugoslavia” (Rumici G., Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002, p. 349). In chiusura del lavoro così esorta: “Per quanto riguarda il nostro Paese, è auspicabile che questo dramma, sul quale per molti anni è calato un colpevole silenzio, diventi finalmente parte della memoria storica nazionale. I morti delle foibe sono stati considerati troppo a lungo un argomento politicamente delicato e per molti versi inopportuno, lasciato alla logica delle parti” (Ibidem, p. 366).

Il Cansiglio è l’altopiano carsico delle Prealpi Venete, caratterizzato dalla presenza di grotte ed inghiottitoi, dove almeno una cavità è stata certamente utilizzata come foiba: “Nel bosco del Cansiglio, ove operava la Divisione Garibaldina Nino Nanetti, a poche centinaia di metri dall’Albergo S. Marco, sede del Comando Partigiano, si apre un orrido inghiottitoio, il Bus de la Lum, una foiba di origine carsica profonda m. 225 (Rif.: Commissione Grotte E. Boegan n. 153 Fr.). Questa foiba, negli anni 1944-1945, fu usata come luogo di eliminazione di civili e militari, giudicati dalle formazioni partigiane come spie” (Pirina M., 1943-1945 Guerra Civile sulle montagne. Vol. I Udine – Belluno, Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”, Pordenone 2001, p. 172). Ancora nel libro di Pirina, appena citato, vi è la trascrizione di una intervista rilasciata da un testimone oculare ad un giornalista, riguardante un episodio avvenuto nel 1944: “Uno alla volta, tutti e otto furono costretti a percorrere una tavola posta sulla bocca della forra. Ai lati due partigiani. Quando le vittime arrivavano al centro, l’asse veniva capovolta. Si sfracellarono, tutti, nella profondità del Bus de la Lum” (Ibidem, p. 179). La Foiba di Basovizza, situata nei pressi di Trieste, non è una cavità naturale, ma si tratta di un pozzo di ricerca mineraria, utilizzato dopo la Prima Guerra Mondiale per gettarvi materiale bellico e al termine della Seconda Guerra Mondiale per trucidare civili e militari. Chiusa con una grande lapide è oggi monumento nazionale (Padovan G., Archeologia del Sottosuolo. Manuale per la conoscenza del mondo ipogeo, Mursia, Milano 2009, p. 211-212).

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