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Friuli: nei bunker italiani della guerra mai combattuta; quella “fredda” (Repubblica 20 lug)

Pesanti portelloni d’ingresso che i rovi hanno coperto e nascosto. Basamenti d’acciaio disseminati nei campi di grano. Caserme immense abbandonate da anni: nelle ca­merate dove dormivano alpini e artiglie­ri, carristi e fanti dei reggimenti d’assal­to – un milione 600 mila italiani hanno fatto il servizio militare in Friuli negli scorsi decenni – è arrivato il bosco. Niente più «giù dalle brande» e trombe che suonano il silenzio. Ora comandano gli alberi. Gli alberi hanno sfondato i tet­ti e sporgono i loro rami verso il cielo.

A San Giovanni al Natisone una polve­riera, dismessa da dieci anni, è ancora li, in attesa che il Comune, che ne ha preso possesso, decida cosa farne: «Non voglia­mo essere precipitosi sull’utilizzo di un’area così ampia» aveva dichiarato il sindaco nel 2001. Così, nell’ex polveriera della Medeuzza, 400 mila metri quadrati sulla strada provinciale Palmarina, tutto è rimasto come prima. Ma anche le pol­veriere, per scoppiettanti che siano state, prima o poi invecchiano. Le garitte della Medeuzza hanno i vetri sfondati; sono oc­chiaie che scrutano il nulla. Il doppio reti­colato di filo spinato è una ragnatela di rughe che si svolge per chilometri lungo la campagna attorno.

All’interno, decine di casematte protette da imponenti ter­rapieni – un tempo contenevano esplosivi capaci di far saltare in aria l’intera regio­ne – danno rifugio a lepri e fagiani, volpi e gufi. Di tanto in tanto scoppia qualche in­cendio doloso: forse qualcuno si è accam­pato all’interno. 0 la vicinanza all’area in­dustriale fa gola a chi vorrebbe mettere le mani sopra al complesso, anche se la crisi del «triangolo della sedia» – Manza­no, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo davano da sedere a buona parte dell’Europa; ora ci pensano i cinesi – non incoraggia a costruire nuovi capannoni,  A farmi da guida, in alcuni dei bunker disseminati dalla Guerra fredda in questo angolo del Friuli, è un gruppetto di ragaz­zini. Simone, Henry, Davide, non erano ancora nati quando è stato abbattuto il Muro di Berlino ed è crollata l’Urss. Quando, insomma, tra Г89 e il primi Anni 90, è finita quella strana guerra tra i «blocchi» che non è mai stata combattuta davvero, ma che, ogni anno, veniva simu­lata da centinaia di migliaia di soldati al di qua e al di là della cortina di ferro. Sul fronte della Nato, dalla Norvegia alla Turchia, le esercitazioni proponevano no­mi perentori come Display Determination, Dragon Hammer. О gentili come titoli di canzone: Diamond Blue, Dram Beat.

D’altra parte aveva un nome evocativo anche l’Olimpo sotterraneo dal quale si pensava di coordinare la risposta all’irru­zione dell’Armata rossa tra queste colline e pianure del Friuli. Si chiamava West Star («Stella d’Occidente») ed era il più grande bunker di tutta la Penisola, scava­to nei primi anni ’60 sotto il monte Mo­scai, nel Veronese. Nei suoi 13 mila metri quadri ricavati dentro la montagna, in ambienti progettati per resistere a tutto, atomiche, armi chimiche e batteriologi­che – avrebbe dovuto accogliere 500 per­sone, tra alti comandi e tecnici. Nel suo ; cuore più blindato, articolato su tre piani, si arrivava con un trenino elettrico: solo ‘ pochissimi, con visto di sicurezza «Cosmic», potevano accedervi. Adesso, di- ; smesso nel 2007 dalla Nato, ci si interro- : ga su cosa farne: laboratorio di ricerca al  riparo da interferenze ambientali? Museo della Guerra fredda? Discoteca?

La Guerra fredda aveva disseminato l’Italia nord-orientale, e soprattutto il Friuli, di installazioni militari: basi, caser­me, bunker, quattromila chilometri qua- : drati di servitù militari per poligoni di ti­ro ed esercitazioni. E da vent’anni è aperto il complicato capitolo delle dismissioni. Secondo una sommaria valutazione, sono oltre quattrocento i siti militari abbando­nati da queste parti nel corso dell’ultimo decennio: significa che ognuno dei 219 Comuni del Friuli Venezia Giulia si trova, in media, alle prese con due di queste aree dimesse. In totale, una superficie di oltre cento chilometri quadrati. Al Dipar­timento di Architettura dell’Università di Udine sono ormai una mezza dozzina le documentatissime tesi di laurea, seguite dal professor Roberto Petruzzi, che cen­siscono e studiano i bunker del «vallo friulano» che avrebbero dovuto fermare l’invasore in arrivo da Oriente. I bunker potevano essere di vario tipo: Pco (Posto comando osservazione), Poa (Posto os­servazione allarme), P (Postazione anti­carro), M (Postazioni di mitragliatrici pe­santi, protette da cupole corazzate). Tutti comunque erano mimetizzati nella vege­tazione, mascherati come casette canto­niere, depositi di attrezzi agricoli, barac­che per improbabili cacciatori. Gli abitan­ti sapevano, osservavano il va e vieni dei soldati e si facevano i fatti propri.

Nei bunker operava la fanteria d’arre­sto della Brigata Pozzuolo del Friuli: suo compito era prepararsi a rallentare l’im­patto dei corazzati del Patto di Varsavia, non appena fossero spuntati al di qua del­la frontiera con la Jugoslavia. Un’attesa durata più di quarant’anni.

«La fanteria d’arresto era attestata sulle difese naturali, dai rilievi del Carso ai fiumi Isonzo, Torre, Natisone e Judrio, dove si era combattuta la Grande Guer­ra. Ogni santo giorno ci si addestrava a combattere la “Terza guerra mondiale”, così come era delineata negli scenari della Nato e del nostro Stato Maggiore» mi dice il colonnello Filiberto Tartaglia, già inquadrato nella Brigata Pozzuolo del Friuli. «I nostri uomini avrebbero do­vuto barricarsi là sotto, nei bunker, e, a colpi di artiglieria e mitragliatrici, osta­colare il nemico e, magari, convogliarlo proprio davanti al nostro schieramento da battaglia. Non ci voleva un Clausewitz per capire che, pur mimetiz­zati con covoni (anche d’in­verno) e fronde d’alberi, dopo due o tre tiri di artiglieria quelli dei bunker sarebbero stati spacciati». Già, una vol­ta individuati dal nemico, quelli che si trovavano là sot­to avrebbero fatto irrimedia­bilmente la fine del topo in trappola. L’incertezza era giusto sul come: sepolti dalle bombe d’aereo, fatti a pezzi dalle artiglierie o arrostiti dai lanciafiamme?

            Ignari di questi scenari, i ragazzi che mi fanno da guida si fanno strada come se, dopo tante ricognizioni, si muovessero nel Campetto da calcio dietro casa Solle­vato un portellone, scendiamo di alcuni metri. Sotto, è buio totale. Servono pile, e una corda, nel caso in cui si debba scen­dere ancora. Il cuore del bunker sono le «camere da combattimento». Da qui si manovravano cannoni, artiglierie e mi­tragliatrici. Le cupole di acciaio che ab­biamo sopra la testa le proteggevano e mimetizzavano. Per arrivarci, superato il massiccio portello­ne, che ricorda quello di un sommergibile, abbiamo dovu­to scivolare lungo un cunicolo alto meno di un metro e largo ancora meno. Alcuni scalini ancora, ed ecco pareti bianche con scritte che indicano dove riporre le armi, le maschere a gas, i viveri, le riserve d’acqua (cinque litri a testa al giorno). C’è anche lo stipo per il telefono da cam­po e il locale del generatore di corrente. Poi una botola e si scende ancora di un li­vello: è il locale che faceva da camerata. Qui i cellulari non prendono più. Per fortuna la guerra, quella che si doveva combattere tra questi bunker, è finita. Anzi, non è mai cominciata.

 

Giorgio Boatti

“la Repubblica” / suppl. “Il Venerdì” 20 luglio 2012

 

 

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