Pesanti portelloni d’ingresso che i rovi hanno coperto e nascosto. Basamenti d’acciaio disseminati nei campi di grano. Caserme immense abbandonate da anni: nelle camerate dove dormivano alpini e artiglieri, carristi e fanti dei reggimenti d’assalto – un milione 600 mila italiani hanno fatto il servizio militare in Friuli negli scorsi decenni – è arrivato il bosco. Niente più «giù dalle brande» e trombe che suonano il silenzio. Ora comandano gli alberi. Gli alberi hanno sfondato i tetti e sporgono i loro rami verso il cielo.
A San Giovanni al Natisone una polveriera, dismessa da dieci anni, è ancora li, in attesa che il Comune, che ne ha preso possesso, decida cosa farne: «Non vogliamo essere precipitosi sull’utilizzo di un’area così ampia» aveva dichiarato il sindaco nel 2001. Così, nell’ex polveriera della Medeuzza, 400 mila metri quadrati sulla strada provinciale Palmarina, tutto è rimasto come prima. Ma anche le polveriere, per scoppiettanti che siano state, prima o poi invecchiano. Le garitte della Medeuzza hanno i vetri sfondati; sono occhiaie che scrutano il nulla. Il doppio reticolato di filo spinato è una ragnatela di rughe che si svolge per chilometri lungo la campagna attorno.
All’interno, decine di casematte protette da imponenti terrapieni – un tempo contenevano esplosivi capaci di far saltare in aria l’intera regione – danno rifugio a lepri e fagiani, volpi e gufi. Di tanto in tanto scoppia qualche incendio doloso: forse qualcuno si è accampato all’interno. 0 la vicinanza all’area industriale fa gola a chi vorrebbe mettere le mani sopra al complesso, anche se la crisi del «triangolo della sedia» – Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo davano da sedere a buona parte dell’Europa; ora ci pensano i cinesi – non incoraggia a costruire nuovi capannoni, A farmi da guida, in alcuni dei bunker disseminati dalla Guerra fredda in questo angolo del Friuli, è un gruppetto di ragazzini. Simone, Henry, Davide, non erano ancora nati quando è stato abbattuto il Muro di Berlino ed è crollata l’Urss. Quando, insomma, tra Г89 e il primi Anni 90, è finita quella strana guerra tra i «blocchi» che non è mai stata combattuta davvero, ma che, ogni anno, veniva simulata da centinaia di migliaia di soldati al di qua e al di là della cortina di ferro. Sul fronte della Nato, dalla Norvegia alla Turchia, le esercitazioni proponevano nomi perentori come Display Determination, Dragon Hammer. О gentili come titoli di canzone: Diamond Blue, Dram Beat.
D’altra parte aveva un nome evocativo anche l’Olimpo sotterraneo dal quale si pensava di coordinare la risposta all’irruzione dell’Armata rossa tra queste colline e pianure del Friuli. Si chiamava West Star («Stella d’Occidente») ed era il più grande bunker di tutta la Penisola, scavato nei primi anni ’60 sotto il monte Moscai, nel Veronese. Nei suoi 13 mila metri quadri ricavati dentro la montagna, in ambienti progettati per resistere a tutto, atomiche, armi chimiche e batteriologiche – avrebbe dovuto accogliere 500 persone, tra alti comandi e tecnici. Nel suo ; cuore più blindato, articolato su tre piani, si arrivava con un trenino elettrico: solo ‘ pochissimi, con visto di sicurezza «Cosmic», potevano accedervi. Adesso, di- ; smesso nel 2007 dalla Nato, ci si interro- : ga su cosa farne: laboratorio di ricerca al riparo da interferenze ambientali? Museo della Guerra fredda? Discoteca?
La Guerra fredda aveva disseminato l’Italia nord-orientale, e soprattutto il Friuli, di installazioni militari: basi, caserme, bunker, quattromila chilometri qua- : drati di servitù militari per poligoni di tiro ed esercitazioni. E da vent’anni è aperto il complicato capitolo delle dismissioni. Secondo una sommaria valutazione, sono oltre quattrocento i siti militari abbandonati da queste parti nel corso dell’ultimo decennio: significa che ognuno dei 219 Comuni del Friuli Venezia Giulia si trova, in media, alle prese con due di queste aree dimesse. In totale, una superficie di oltre cento chilometri quadrati. Al Dipartimento di Architettura dell’Università di Udine sono ormai una mezza dozzina le documentatissime tesi di laurea, seguite dal professor Roberto Petruzzi, che censiscono e studiano i bunker del «vallo friulano» che avrebbero dovuto fermare l’invasore in arrivo da Oriente. I bunker potevano essere di vario tipo: Pco (Posto comando osservazione), Poa (Posto osservazione allarme), P (Postazione anticarro), M (Postazioni di mitragliatrici pesanti, protette da cupole corazzate). Tutti comunque erano mimetizzati nella vegetazione, mascherati come casette cantoniere, depositi di attrezzi agricoli, baracche per improbabili cacciatori. Gli abitanti sapevano, osservavano il va e vieni dei soldati e si facevano i fatti propri.
Nei bunker operava la fanteria d’arresto della Brigata Pozzuolo del Friuli: suo compito era prepararsi a rallentare l’impatto dei corazzati del Patto di Varsavia, non appena fossero spuntati al di qua della frontiera con la Jugoslavia. Un’attesa durata più di quarant’anni.
«La fanteria d’arresto era attestata sulle difese naturali, dai rilievi del Carso ai fiumi Isonzo, Torre, Natisone e Judrio, dove si era combattuta la Grande Guerra. Ogni santo giorno ci si addestrava a combattere la “Terza guerra mondiale”, così come era delineata negli scenari della Nato e del nostro Stato Maggiore» mi dice il colonnello Filiberto Tartaglia, già inquadrato nella Brigata Pozzuolo del Friuli. «I nostri uomini avrebbero dovuto barricarsi là sotto, nei bunker, e, a colpi di artiglieria e mitragliatrici, ostacolare il nemico e, magari, convogliarlo proprio davanti al nostro schieramento da battaglia. Non ci voleva un Clausewitz per capire che, pur mimetizzati con covoni (anche d’inverno) e fronde d’alberi, dopo due o tre tiri di artiglieria quelli dei bunker sarebbero stati spacciati». Già, una volta individuati dal nemico, quelli che si trovavano là sotto avrebbero fatto irrimediabilmente la fine del topo in trappola. L’incertezza era giusto sul come: sepolti dalle bombe d’aereo, fatti a pezzi dalle artiglierie o arrostiti dai lanciafiamme?
Ignari di questi scenari, i ragazzi che mi fanno da guida si fanno strada come se, dopo tante ricognizioni, si muovessero nel Campetto da calcio dietro casa Sollevato un portellone, scendiamo di alcuni metri. Sotto, è buio totale. Servono pile, e una corda, nel caso in cui si debba scendere ancora. Il cuore del bunker sono le «camere da combattimento». Da qui si manovravano cannoni, artiglierie e mitragliatrici. Le cupole di acciaio che abbiamo sopra la testa le proteggevano e mimetizzavano. Per arrivarci, superato il massiccio portellone, che ricorda quello di un sommergibile, abbiamo dovuto scivolare lungo un cunicolo alto meno di un metro e largo ancora meno. Alcuni scalini ancora, ed ecco pareti bianche con scritte che indicano dove riporre le armi, le maschere a gas, i viveri, le riserve d’acqua (cinque litri a testa al giorno). C’è anche lo stipo per il telefono da campo e il locale del generatore di corrente. Poi una botola e si scende ancora di un livello: è il locale che faceva da camerata. Qui i cellulari non prendono più. Per fortuna la guerra, quella che si doveva combattere tra questi bunker, è finita. Anzi, non è mai cominciata.
Giorgio Boatti
“la Repubblica” / suppl. “Il Venerdì” 20 luglio 2012